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«Il Lazio è zona nostra». Della «famiglia nostra», per indicare i «cento» tra ‘ndranghetisti e gruppi criminali romani che avevano creato un unico sodalizio e fatto loro la Capitale, «siao come i papi». E ancora: «Siamo pronti a fare una guerra». Sembrano finiti i tempi in cui la ‘ndrangheta a Roma non poteva operare in esclusiva perché città come la Capitale o Milano dovevano essere lasciate «zone libere» per non attirare sospetti e indagini, «senza pretendere di avere il controllo militare esclusivo del territorio come nelle regioni di origine».
«Il Lazio è zona nostra»
Lo aveva spiegato un pentito riferendo parole dei calabresi di Anzio. Adesso, invece, chi non voleva piegarsi alla ‘ndrangheta doveva fare i conti con gli “spezzapollici” dei capi clan Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo. Intimidazioni e minacce rivolte direttamente agli imprenditori e ai commercianti finiti nel racket criminale gestito dalle ‘ndrine che partiva dalla Capitale e arrivava fino al litorale. Quarantatré persone sono finite nella maxi operazione della Dia e della Procura di Roma con l’accusa di associazione mafiosa, narcotraffico, commercio di armi, riciclaggio e intestazione fittizia dei beni.
GLI EQUILIBRI
Era Vincenzo Alvaro, il boss calabrese romano di adozione, l’anello di congiunzione tra la ‘ndrangheta e la criminalità romana.
I LEGAMI
Vincenzo Alvaro era chiamato addirittura “zio” da Gianluca Almaviva, il sodale di Fabrizio Piscitelli, alias “Diabolik”. I legami con Piscitelli e i capi delle cosche calabrese sono l’ulteriore prova che per entrare nel giro dello spaccio, la ‘ndrangheta a Roma voleva accedere dalla porta principale. Girava con chili di droga Almaviva - finito già nell’operazione ”Grande Raccordo Criminale” - e con 13mila euro in contanti. «Il padre di “zio” - diceva Almaviva - è colui che al tempo delle faide del dopoguerra ha riunito tutte le famiglie e ha creato la pace». La pax criminale che tutti hanno cercato fino alla fine. Minacce, poi, anche per il giornalista Klaus Davi che aveva proposto al Campidoglio di affiggere nelle stazioni della metro alcuni volantini dove erano riportate le foto e i nomi dei boss calabresi trapiantati nella Capitale. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero