Ndrangheta a Roma, «Il Lazio è zona nostra». L’alleanza con i Fasciani

I boss calabresi anello di congiunzione con i criminali romani: «Siamo in cento»

Vincenzo Alvaro in una delle tante feste di famiglia
di Alessia Marani e Mirko Polisano
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Mercoledì 11 Maggio 2022, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 03:12

«Il Lazio è zona nostra». Della «famiglia nostra», per indicare i «cento» tra ‘ndranghetisti e gruppi criminali romani che avevano creato un unico sodalizio e fatto loro la Capitale, «siao come i papi». E ancora: «Siamo pronti a fare una guerra». Sembrano finiti i tempi in cui la ‘ndrangheta a Roma non poteva operare in esclusiva perché città come la Capitale o Milano dovevano essere lasciate «zone libere» per non attirare sospetti e indagini, «senza pretendere di avere il controllo militare esclusivo del territorio come nelle regioni di origine».

'Ndrangheta, il sistema violento della 'ndrina romana: i Fasciani erano gli esattori (e le vittime non denunciavano)

«Il Lazio è zona nostra»

Lo aveva spiegato un pentito riferendo parole dei calabresi di Anzio.

Adesso, invece, chi non voleva piegarsi alla ‘ndrangheta doveva fare i conti con gli “spezzapollici” dei capi clan Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo. Intimidazioni e minacce rivolte direttamente agli imprenditori e ai commercianti finiti nel racket criminale gestito dalle ‘ndrine che partiva dalla Capitale e arrivava fino al litorale. Quarantatré persone sono finite nella maxi operazione della Dia e della Procura di Roma con l’accusa di associazione mafiosa, narcotraffico, commercio di armi, riciclaggio e intestazione fittizia dei beni.

 


GLI EQUILIBRI

Era Vincenzo Alvaro, il boss calabrese romano di adozione, l’anello di congiunzione tra la ‘ndrangheta e la criminalità romana. I nomi sono quelli che ricorrono nella mala così come nelle inchieste giudiziarie: Fasciani, Casamonica e Gallace. Legami anche con i sodali di Diabolik, come si evince dalle carte. È proprio Alvaro l’uomo che avrebbe dovuto garantire una vera e propria «pax» criminale tra le varie consorterie. «A lui - scrivono gli investigatori - spettavano i ruoli di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere, degli obiettivi da perseguire e delle vittime da colpire». A bussare alle porte dei gestori delle attività commerciali erano i Fasciani e i Casamonica, la lunga mano «armata» della ‘ndrangheta su Roma: «la propaggine di sotto», come la definisce Carzo in una intercettazione, basandosi sul modello “Ostia”. Ossia come i Fasciani avevano gli Spada in qualità di subordinati, così i clan calabresi avevano i Casamonica e i Fasciani. A sedersi al tavolo delle trattative e a gestire il “recupero crediti” per chi aveva contratto debiti con l’organizzazione era il fratello di “don” Carmine, Terenzio: l’unico in libertà. Nella rete era poi finita una serie di negozi intestati a prestanome e che servivano come lavatrice per riciclare il denaro sporco: pescherie, ristoranti ma anche imprese legate al ritiro delle pelli e degli olii esausti. E dopo aver pagato la retta: «Sbrigati ad andartene perché se no neanche ritorni a casa. Cerca su internet i Fasciani». L’area che va dai Castelli all’Eur era il raggio d’azione dei Casamonica. A fare gli affari era il capo “Mano monca”, al secolo Giuseppe Casamonica. A Lavinio, invece, era il boss Carzo ad avere: «tutti quegli amici», quelli da andare a trovare per rinfrancare alleanze, ma con discrezione, senza destare i sospetti delle forze dell’ordine.


I LEGAMI

Vincenzo Alvaro era chiamato addirittura “zio” da Gianluca Almaviva, il sodale di Fabrizio Piscitelli, alias “Diabolik”. I legami con Piscitelli e i capi delle cosche calabrese sono l’ulteriore prova che per entrare nel giro dello spaccio, la ‘ndrangheta a Roma voleva accedere dalla porta principale. Girava con chili di droga Almaviva - finito già nell’operazione ”Grande Raccordo Criminale” - e con 13mila euro in contanti. «Il padre di “zio” - diceva Almaviva - è colui che al tempo delle faide del dopoguerra ha riunito tutte le famiglie e ha creato la pace». La pax criminale che tutti hanno cercato fino alla fine. Minacce, poi, anche per il giornalista Klaus Davi che aveva proposto al Campidoglio di affiggere nelle stazioni della metro alcuni volantini dove erano riportate le foto e i nomi dei boss calabresi trapiantati nella Capitale.

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