Ai piedi di un monumento dei più caratteristici e singolari in città, l'Elefantino della Minerva, c'è una frase dettata dal committente in persona,...
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Il primo era un erudito, e conosceva il più affascinante libro allora esistente («il più bello del Rinascimento», diceva Umberto Eco): l'Hypnerotomachia Poliphili, il combattimento onirico e amoroso di Polifilo, edito da Aldo Manuzio nel 1499, con 172 xilografie di Francesco Colonna. Ecco: una di loro è il precursore dell'elefantino. Ad essa, Bernini si ispira per una scultura, poi realizzata da Ercole Ferrata, che non era nemmeno un suo allievo: buon nome del Barocco romano, aveva imparato da Alessandro Algardi. Ma esegue un'opera ideata da Bernini: ci sono suoi disegni, e a Firenze, dai Corsini, una sua terracotta autografa.
Il monumento nasce perché i Domenicani avevano ritrovato l'obelisco nel cortile del loro convento, nel 1665: era in piazza, dove ora è la biblioteca del Senato. Loro volevano qualcosa di assai diverso. L'architetto e frate Domenico Paglia lo pensava sorretto da un cane, in onore del proprio ordine: Domeni Cani, fedeli custodi di Dio. Alla base, sei piccoli colli, poiché lo stemma Chigi mostra sei monti. Ma il papa disse di no; in stanza teneva la propria bara, pur disegnata da Bernini; e un teschio sulla scrivania, per indicare la caducità del mondo; aveva studiato: sceglie da quel libro e ne officia l'artista prediletto. Che, per vendetta contro padre Paglia fino all'ultimo contrario al progetto, colloca l'animale con le terga al convento: non è proprio carino, vero? Ultima curiosità: la gualdrappa fino a terra cela un supporto in pietra; per reggere il peso.
Il «porcino - pulcino» fa la guardia a una piazza; dove il convento, dopo l'Unità, diventa la Pubblica Istruzione, e poi passa al Senato: un tempo, volevano porre in cima una terrazza e un bar, tentativo però sventato. E nella chiesa della Minerva, con il Cristo portacroce di Michelangelo e gli affreschi di Filippino Lippi, i sepolcri di Caterina da Siena e del Beato Angelico, di cinque pontefici. Davanti a quello che era quasi un Pantheon (di quello vero, il papa pensava di chiudere l'oculum, metterci un lampadario al centro, imbottire i cassettoni della volta con una scritta e il suo stemma) sta il nostro elefantino, che certo non pensava d'incontrare un piccolo cretino; e fa anche rima.
I SIMBOLI
Di simboli, segni topici, Roma ne ha molti altri. Ma di solito assai più grandiosi: la Colonna dell'omonima piazza; o i fontanoni a San Pietro; o gli altri obelischi: perché questo, in granito rosso e alto nemmeno sei metri, è il più piccolo dopo quello di Villa Celimontana. Segnacoli simili sono, ad esempio, il Tritone a piazza Barberini, pure di Bernini; le api di un'altra sua fontana, all'angolo con via Veneto; la Barcaccia a piazza di Spagna; le Tartarughe a Piazza Mattei, dove la famosa famiglia, committente pure di tre Caravaggio (era sua anche Villa Celimontana), possedeva un'insula con vari palazzi: uno, ancora pieno di lapidi e sculture murate, come un tempo. Ma avvisiamo subito gli imbecilli e i male intenzionati: le quattro tartarughe, più volte rubate e ingiuriate e pure loro piccoli capolavori di Bernini o Andrea Sacchi, sono ormai solo copie; dal 1979, dopo l'ultimo furto, sono ai Musei Capitolini. Almeno, i tre originali superstiti. Meglio dirlo: non si sa mai. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero