L'Elefantino del Bernini: lo sberleffo del «porcino» e l'obelisco voluto dal Papa

L'Elefantino del Bernini: lo sberleffo del «porcino» e l'obelisco voluto dal Papa
di Fabio Isman
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Martedì 15 Novembre 2016, 08:19

Ai piedi di un monumento dei più caratteristici e singolari in città, l'Elefantino della Minerva, c'è una frase dettata dal committente in persona, Fabio Chigi, papa Alessandro VII: «Ci vuole una mente robusta per sostenere una solida intelligenza»; non erano però certamente solide e robuste quelle dello sconsiderato, per non dire assai peggio, che l'ha vilipeso, mozzato, danneggiato. Sicuramente, perfino ignorando cosa stava sfregiando. Un animale, che regge un obelisco egizio dei più antichi, del 570 a.C., portato a Roma chissà quando e collocato nell'Iseo Campense, con le quattro facciate coperte di geroglifici. Elefante un po' tozzo, con corte gambette, che ai romani piaceva poco: lo chiamavano «porcino», cioè piccolo porco; ma, nel tempo, è diventato «pulcino»: un nome che non c'entra nulla. Una grande prodezza del papa e di Gian Lorenzo Bernini.

Il primo era un erudito, e conosceva il più affascinante libro allora esistente («il più bello del Rinascimento», diceva Umberto Eco): l'Hypnerotomachia Poliphili, il combattimento onirico e amoroso di Polifilo, edito da Aldo Manuzio nel 1499, con 172 xilografie di Francesco Colonna. Ecco: una di loro è il precursore dell'elefantino. Ad essa, Bernini si ispira per una scultura, poi realizzata da Ercole Ferrata, che non era nemmeno un suo allievo: buon nome del Barocco romano, aveva imparato da Alessandro Algardi. Ma esegue un'opera ideata da Bernini: ci sono suoi disegni, e a Firenze, dai Corsini, una sua terracotta autografa.

Il monumento nasce perché i Domenicani avevano ritrovato l'obelisco nel cortile del loro convento, nel 1665: era in piazza, dove ora è la biblioteca del Senato. Loro volevano qualcosa di assai diverso. L'architetto e frate Domenico Paglia lo pensava sorretto da un cane, in onore del proprio ordine: Domeni Cani, fedeli custodi di Dio. Alla base, sei piccoli colli, poiché lo stemma Chigi mostra sei monti. Ma il papa disse di no; in stanza teneva la propria bara, pur disegnata da Bernini; e un teschio sulla scrivania, per indicare la caducità del mondo; aveva studiato: sceglie da quel libro e ne officia l'artista prediletto. Che, per vendetta contro padre Paglia fino all'ultimo contrario al progetto, colloca l'animale con le terga al convento: non è proprio carino, vero? Ultima curiosità: la gualdrappa fino a terra cela un supporto in pietra; per reggere il peso.

Il «porcino - pulcino» fa la guardia a una piazza; dove il convento, dopo l'Unità, diventa la Pubblica Istruzione, e poi passa al Senato: un tempo, volevano porre in cima una terrazza e un bar, tentativo però sventato. E nella chiesa della Minerva, con il Cristo portacroce di Michelangelo e gli affreschi di Filippino Lippi, i sepolcri di Caterina da Siena e del Beato Angelico, di cinque pontefici. Davanti a quello che era quasi un Pantheon (di quello vero, il papa pensava di chiudere l'oculum, metterci un lampadario al centro, imbottire i cassettoni della volta con una scritta e il suo stemma) sta il nostro elefantino, che certo non pensava d'incontrare un piccolo cretino; e fa anche rima.

I SIMBOLI
Di simboli, segni topici, Roma ne ha molti altri. Ma di solito assai più grandiosi: la Colonna dell'omonima piazza; o i fontanoni a San Pietro; o gli altri obelischi: perché questo, in granito rosso e alto nemmeno sei metri, è il più piccolo dopo quello di Villa Celimontana. Segnacoli simili sono, ad esempio, il Tritone a piazza Barberini, pure di Bernini; le api di un'altra sua fontana, all'angolo con via Veneto; la Barcaccia a piazza di Spagna; le Tartarughe a Piazza Mattei, dove la famosa famiglia, committente pure di tre Caravaggio (era sua anche Villa Celimontana), possedeva un'insula con vari palazzi: uno, ancora pieno di lapidi e sculture murate, come un tempo.

Ma avvisiamo subito gli imbecilli e i male intenzionati: le quattro tartarughe, più volte rubate e ingiuriate e pure loro piccoli capolavori di Bernini o Andrea Sacchi, sono ormai solo copie; dal 1979, dopo l'ultimo furto, sono ai Musei Capitolini. Almeno, i tre originali superstiti. Meglio dirlo: non si sa mai.

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