OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
oppure
1€ al mese per 6 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
A poche settimane dall’inizio della campagna elettorale, Roma è tornata alla casella di partenza. Il centrodestra è senza un candidato unitario; il centrosinistra ha ricevuto molti “no, grazie” dagli esponenti di punta del partito e fatica ad accettare l’idea di un candidato come Carlo Calenda che, pur provenendo dal mondo della sinistra, non è esattamente espressione del Pd romano.
L’unico (apparente) elemento di novità in questa partenza al rallentatore sembra essere l’annunciata nascita di una “nuova area” politica “socialista e cristiana” da parte di quello che viene considerato come il king maker del pd romano, Goffredo Bettini, suggeritore delle strategie politiche del primo Veltroni fino allo Zingaretti dei nostri giorni.
Il progetto politico, per quello che è possibile capire dalle prime dichiarazioni, è però per niente nuovo.
E’ la politica del “dare a tutti un po’” per rabbonire le masse, per guadagnarsene la riconoscenza, per controllarne poi il consenso al momento del voto. E’ la vecchia politica delle tessere di sbardelliana memoria.
E oggi rappresenta lo strumento più adatto per controllare i pacchetti di voti degli iscritti, per orientarli in occasione delle primarie, quindi per decidere secondo le proprie convenienze chi sarà il candidato dem per il Campidoglio e il probabile sindaco di Roma. E’ un sistema che si autoalimenta. Che serve per conquistare il potere e mantenerlo attraverso il soddisfacimento delle richieste di larghe fasce di elettorato. Il sindaco eletto con questo strumento, inevitabilmente, è in mano a chi lo ha scelto: deve accontentarne le richieste, eseguire le sue direttive. Può succedere che si ribelli, in tal caso lo stesso potere di controllo della base del partito può essere utilizzato per eliminarlo dalla scena. E la storia recente dell’ultimo sindaco dem può restituire la rappresentazione plastica di questo copione.
Ecco, forse al punto in cui è arrivata la Capitale, sentir parlare ancora di “primarie” dovrebbe suonare quasi insultante per tutti i romani che lavorano sodo, che non ricevono favoritismi dal politico di turno, che sognano una città che torni a vibrare come le altre metropoli d’Italia e del resto d’Europa, e che non sia ripiegata su se stessa, dove una maggioranza silenziosa si accontenta di restare piccola e indisturbata con poco sforzo, abdicando alla capacità di autodeterminazione.
Le primarie hanno perso da tempo la loro funzione di democrazia: oggi ne rappresentano l’antitesi e anche la negazione. E c’è da augurarsi che la scelta del prossimo sindaco di Roma rappresenti un momento di discontinuità rispetto ad un passato in cui gli interessi personali di un manipolo di politicanti romani ha prevalso su quelli di tutta la Capitale.
Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero