Rieti, ingiurie via social ma senza il nome del destinatario: niente diffamazione

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RIETI - Non è sufficiente considerarsi la vittima di affermazioni lesive della propria reputazione rese da altri, ma per dimostrarlo occorre che il proprio nome venga...

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RIETI - Non è sufficiente considerarsi la vittima di affermazioni lesive della propria reputazione rese da altri, ma per dimostrarlo occorre che il proprio nome venga esplicitamente associato alla presunta diffamazione. È sostanzialmente quanto affermato in una sentenza assolutoria pronunciata dal tribunale, in merito a un singolare caso di diffamazione attraverso facebook - fenomeno che sta facendo finire all’esame della magistratura un crescente numero di casi - in seguito al quale era finito sotto processo un uomo di 47 anni di Santa Rufina, accusato di aver postato un video e una serie di frasi ingiuriose, frutto di uno sfogo personale legato a una controversia per il mancato pagamento di una prestazione lavorativa. Affermazioni che, in qualche modo, sembravano prendere di mira il presunto diffamato che, pur non essendo stato mai citato con nome e cognome, ugualmente si era ritenuto destinatario del filmato, leggendo alcuni riferimenti contenuti nelle parole. Era stata, così, presentata una denuncia e per l’imputato era arrivata la citazione a giudizio da parte della procura, ferma nel chiedere al processo la sua condanna a quattro mesi.

I contenuti


Tutte da leggere, e decifrare, le frasi incriminate postate sulla pagina facebook dell’imputato, che aveva esordito scrivendo “ho un diverbio con il fratello di Peppa Pig”, “il signor Giuda Pig il Porco”, “Giuda Pig al tempo titolare di questa agenzia”, proseguendo con “è un giuda infame uno che alla gente che onestamente e regolarmente ha lavorato”: giudizi che avevano ricevuto like e condivisioni da altri utenti. Gli stessi, chiamati a deporre come testimoni, hanno però affermato di aver condiviso post e video per solidarietà, ma senza capire a chi fossero realmente indirizzati, e questo elemento di mancata assunzione della prova ha fatto venir meno il reato di diffamazione, non essendo stata esplicitamente individuata la vittima, pur avendo la stessa, costituitasi parte civile, confermato di essere debitore dell’imputato, con conseguente assoluzione dell’imputato «perché il fatto non sussiste», come richiesto dall’avvocato difensore Alessandro Brucchietti. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice monocratico Massimiliano Auriemma, chiarendo come «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, sotto il profilo dell’offesa, arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, perché è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone», ha però precisato nel caso specifico che «la condotta non può dirsi posta «con il mezzo della stampa, non essendo i social network destinati a un’attività di informazione diretta al pubblico».

 

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Il Messaggero