RIETI - E’ stato il giorno di Andrea Cecilia al processo per gli abusi edilizi contestati dalla procura della Repubblica nella realizzazione del polo culturale delle...
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IL J’ACCUSE
Prima della requisitoria, Cecilia ha reso dichiarazioni spontanee, iniziando con il dire che «questo processo non sarebbe nato se il consiglio della Fondazione Varrone, forse per impegni già presi, non si fosse affrettato a inaugurare nel 2013 il centro. Una fretta che si è rivelata un boomerang, perché bastava solo attendere pochi mesi, dopo la presentazione di una Scia, per completare la pratica sul cambio di destinazione d’uso del fabbricato adibito a biblioteca».
E sulla natura dell’intervento, l’architetto ha ribadito che «è stato un restauro e non una ristrutturazione, dunque, non serviva un piano di recupero. Si è tratto di un’operazione urbanistica nel pieno rispetto delle norme e della riqualificazione urbana, ma questo processo non l’ha pienamente recepita e lo stesso consulente della procura non ha visionato tutti gli atti che lo confermano».
IL RETROSCENA
Poi, una volta fuori dall’aula, aggiunge: «E’ una vicenda nata in sede politica che ha inciso sul corso urbanistico di Rieti, ora resto scettico sulla riapertura delle Officine».
Il pm Francia, in precedenza, non ha avuto dubbi parlando di «modifiche che hanno stravolto la facciata originaria degli edifici. Visto l’intervento urbanistico sarebbe stato corretto presentare un piano di recupero, invece nei titoli non si parlava mai di ristrutturazione, ma di restauro, preferendo parcellizzare gli interventi per aggirare gli ostacoli».
Attorno a questo nodo è ruotato l’intero processo e si fonderà pure la sentenza («Cecilia non ha mai espresso valutazioni arbitrarie, neppure ha partecipato a riunioni della commissione. Nel suo comportamento non c’è dolo», ha sostenuto Danilo Leva, difensore dell’architetto) che per l’avvocato Vincenzo Martorana, codifensore con Giovanna Muratori dell’ex presidente de Sanctis, non potrà che concludersi con l’assoluzione: «Gli interventi eseguiti a largo San Giorgio erano finalizzati a conservare il preesistente, non c’è stato un recupero, ma solo il restauro di un ex monastero benedettino per il quale è stata mantenuta la destinazione culturale». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero