Ma anche il Vaticano ha contribuito alla crisi

Ma anche il Vaticano ha contribuito alla crisi
Poche volte nei tempi recenti si è ascoltato un appello così accorato all’Europa, «culla della civiltà, dell’umanesimo, della...

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Poche volte nei tempi recenti si è ascoltato un appello così accorato all’Europa, «culla della civiltà, dell’umanesimo, della bellezza». Un appello come quello lanciato ieri dal Papa. E di rado si è sentito un così caloroso invito a costruire un nuovo futuro a partire dall’identità europea che, secondo il Pontefice, sarebbe sempre stata «dinamica e multiculturale». 


Per quanto il ritratto storico di Bergoglio sia troppo benevolo verso il vecchio Continente che, oltre ad essere patria dell’umanesimo, ha infiammato il mondo con due guerre mondiali, ha inventato i totalitarismi, ha prodotto lo sterminio degli ebrei, il suo è un invito a guardare avanti. Come spesso nei discorsi di questo Papa, pure quello di ieri si colloca su un doppio registro, teologico-morale e politico. Che cosa è se non un ragionamento politico quello a favore di un’Europa dell’«economia sociale» rispetto al «profitto»? 

E che cosa è se non un invito politico quello a «costruire ponti e abbattere muri», cioè ad accogliere gli immigrati? Beninteso, la Chiesa ha non solo il diritto ma addirittura il dovere di esprimere posizioni politiche e del resto nella storia, pure di questo secolo, le “divisioni del Vaticano”, come diceva spregiativamente Stalin, hanno pesato, e quasi sempre a favore della democrazia e della libertà. Il Pontefice però è prima di tutto una figura di indiscusso magistero teologico e morale; il suo discorso è improntato, ed è ovvio lo sia, ai valori della religione che, più di tutte quelle monoteistiche, afferma l’uguaglianza degli uomini. 

Per cui sarebbe curioso sentire un Papa invitare alla chiusura delle frontiere o a scacciare i bisognosi. La Chiesa, ci insegna Max Weber, è detentrice dell’etica della convinzione e da questa non può né deve allontanarsi. Ben diversa però deve essere l’ottica della politica e in particolare di coloro a cui gli elettori hanno consegnato le responsabilità di governo. I governanti, per citare ancora Max Weber, sono o almeno dovrebbero essere dominati dall’etica della responsabilità rispetto a quella della convinzione. E quando la politica ha anteposto la seconda alla prima, i risultati sono stati sempre disastrosi. Inoltre la politica dovrebbe conoscere quella che gli scienziati sociali chiamano eterogenesi dei fini, cioè che le decisioni non ponderate possono produrre l’effetto opposto a quello desiderato. Nello specifico, ci sarebbe da eccepire se le forze politiche o peggio i governi volessero tradurre in misure i moniti del Papa sull’immigrazione. In primo luogo perché la politica deve avere una sua autonomia di giudizio dalla Chiesa, altrimenti si ricadrebbe in forme di clericalismo. 

Quello che si ritrova in tante forze politiche progressiste, non solo italiane, che per una vita si sono battute contro le ingerenze della Chiesa fino all’anticlericalismo più estremo e oggi sono diventate “bergogliane” - per quanto a corrente alternata, come si vede sulla questione dei matrimoni omosessuali. In secondo luogo, la linea direttrice degli esecutivi deve essere la difesa dei loro cittadini: il compito del governo, la sua prima funzione, è infatti quello di proteggere, altrimenti si cadrebbe nella giungla dello stato di natura. 


E una politica di apertura delle frontiere indiscriminata, un invito a tutta la miseria del mondo a riversarsi sull’Europa, farebbe in poco tempo saltare il patto civile, produrrebbe gli effetti contrari a quelli desiderati, e insomma disintegrerebbe il Vecchio Continente. Che, come ci insegna la storia, sarà pure un Paradiso, ma nei momenti di crisi si popola di diavoli. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero