Trump, il difficile equilibrio costruito sul nemico Iran

Trump, il difficile equilibrio costruito sul nemico Iran
Ad occhi profani, partendo dall’Arabia Saudita per Israele, Trump non avrebbe potuto arrivare in un mondo più diverso e lontano. Queste due tappe iniziali del suo...

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Ad occhi profani, partendo dall’Arabia Saudita per Israele, Trump non avrebbe potuto arrivare in un mondo più diverso e lontano. Queste due tappe iniziali del suo importante primo viaggio all’estero sono del resto agli antipodi. Dal punto di vista sociale e politico, infatti, la distanza non potrebbe essere più abissale. Non solo i due Paesi sono l’uno il custode dei due luoghi più santi dell’Islam – la Mecca e Medina, mentre il terzo è Gerusalemme – e l’altro l’unica nazione ebraica, ma soprattutto sono il primo una delle società più chiuse al mondo e il secondo una di quelle più aperte.


Mentre in Arabia Saudita non esiste infatti suffragio universale, anzi non esiste quasi suffragio del tutto, e le donne non possono guidare la macchina, in Israele vige un sistema democratico a suffragio universale sin dalla sua fondazione nel 1948. Qui le donne non solo guidano ma fanno anche il servizio di leva, mentre a Tel Aviv ogni anno si tiene – unico Stato del medioriente – un popolarissimo e partecipatissimo Gay Pride, del tutto accettato visto che in Israele i diritti dei gay e delle unioni di fatto sono tra i più avanzati al mondo. 


Ma se enorme è la distanza tra le due società e il loro modo di rapportarsi all’esterno, molto minore negli ultimi anni è divenuta la distanza strategica in termini di alleanze e visione delle problematiche regionali. La sola differenza potrebbe essere nell’approccio, molto da businessman in Arabia Saudita e probabilmente molto più politico in Israele. Per il resto, invece, i punti di contatto sono molti. A partire da quello cruciale della visione dell’Iran come nemico esistenziale. Su questa base comune, Trump ha pronunciato il suo discorso a Riad e ha costruito la sua visita in Israele. Nel discorso di Riad infatti, Trump ha marcato tutte le differenze possibili con il famoso discorso del Cairo del 4 giugno 2009 in cui Obama prometteva «un nuovo inizio con l’Islam». Qui, più modestamente, Trump doveva innanzitutto far dimenticare il suo personale e disastroso inizio di rapporti con l’Islam, e per farlo ha puntato su due “riduzioni”: quella dell’Islam alla parte sunnita, che è sì maggioranza però non totalità, e poi rivolgendosi ai suoi leader più che al popolo.

Ai suoi colleghi, insomma. Ai quali la formula «comuni interessi e valori» sono stati declinati come «lotta al terrorismo» e «scambi commerciali». Nulla vi era della visione di Obama, se non la ripetizione - giusta, ma fatta anche da Obama - che la maggior parte delle vittime del terrorismo jihadista sono musulmane. Un discorso dunque privo di afflato universale e per questo di politica regionale, anche perché le leadership presenti non rappresentavano nemmeno la maggioranza dei musulmani sunniti, che vivono invece in Indonesia, Asia del Sud, Egitto, Turchia e Nigeria. Ma forse proprio perché un commentatore ha detto che «il discorso poteva essere stato scritto da una ditta saudita di relazioni pubbliche», esso bene o male ha funzionato, e non era scontato. Aiutato anche dalle assai basse aspettative, visti i precedenti ed anche i primi executive orders della sua Presidenza. Additando l’Iran come fonte di tutti gli sconvolgimenti regionali - terrorismo e guerre civili - Trump ha dunque fatto dimenticare a Riad le sue prime dichiarazioni sull’Islam, e preparato un terreno favorevole per la seconda tappa in Israele, cominciata ieri. Netanyhau è infatti da sempre avversario della visione di Obama dell’Iran come “avversario” con cui provare a negoziare piuttosto che come “nemico esistenziale” con cui ciò non è possibile. Ma l’impressione è che ciò potrebbe non bastare, al netto dell’allergia di Netanyahu per Obama e alla sua istintiva simpatia per Trump.

Perché il rapporto tra i due Stati non può ridursi a quello tra due persone e nemmeno tra due Amministrazioni, come si vede dal problematico ruolo del genero Jared Kushner, anche se questo è il tentativo e lo stile di Trump. Inoltre, ancora non risolti sono i dubbi che gran parte dell’ebraismo nutre verso l’aspetto suprematista e razzista bianco con cui Trump ha vinto le elezioni, che Trump deve farsi ancora perdonare, esattamente come ha provato a farsi perdonare l’islamofobia a Riad. Scivoloni sono sempre possibili. Soprattutto di fronte a questioni così complesse come il conflitto israelo- palestinese e poi gli sconvolgimenti regionali. 

Qui tutto dipende dall’analisi. Se Trump continuerà a pensare che il problema dell’Isis abbia soluzioni andando contro Teheran e non invece risolvendo le pretese sunnite che lo hanno sostenuto a Riad, e che basti riconoscere alcuni dati di realtà - andando al Muro Occidentale, e magari spostando l’ambasciata Usa a Gerusalemme - senza però saper costruire uno Stato Palestinese, allora lavorerà in realtà per quello status quo che dice di voler cambiare. E lo status quo sono le guerre civili in corso, l’esistenza dell’Isis al di là delle sue sconfitte militari, il ruolo crescente della Russia, l’impossibilità di contenere la forza iraniana solo militarmente, e la putrescenza della questione palestinese. Che potrebbe contagiare come una cancrena la fibra stessa della società israeliana e dello Stato d’Israele.  Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero