«Non accetto di essere considerato un traditore dello Stato, un fellone come si diceva una volta e continuerò a lottare fino in fondo certo che alla fine...
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«Non si può comprendere il mio caso - ha sottolineato il generale - se non si parte dal 1989, quando Giuseppe De Donno (suo stretto collaboratore nel Ros, ndr) iniziò un'investigazione su quello che appariva un "modesto" omicidio, ma dal quale emerse poi un contesto in cui la gestione degli appalti pubblici in Sicilia e altrove era guidata da un direttorio costituito da Cosa Nostra, imprenditori e politici».
Dell'indagine, ha proseguito Mori, «si interessò Giovanni Falcone fino a quando non fu trasferito al ministero a Roma. Lui insistette perché consegnassimo l'informativa, ma noi non eravamo convinti perché volevamo più tempo. Alla fine ci convinse e l'inchiesta mafia-appalti per 3-4 mesi sparì nel nulla, finché nel 1991 la procura emise 5 ordinanze di custodia cautelare: la montagna aveva partorito il topolino. L'informativa fu consegnata agli avvocati ed a quel punto anche la mafia seppe dove eravamo arrivati. Questo ci fece arrabbiare e lo dicemmo al procuratore della Repubblica: ci fu quindi grande crisi tra Procura e Ros». «Nel 1992 - ha ricostruito ancora l'ex comandante del Ros - fu ucciso Falcone e Paolo Borsellino chiese di parlare con me e Giuseppe De Donno (suo collaboratore nel Ros, ndr). Ci incontrammo nella caserma Carini di Palermo.
Lui era convinto che l'inchiesta mafia-appalti fosse la causa dell'uccisione di Falcone, io non ero convinto perché potevano anche esserci altre cause.
Il Messaggero