Migranti, i Paesi del Golfo: non accogliamo perché tra i civili si nascondono i terroristi

Migranti, i Paesi del Golfo: non accogliamo perché tra i civili si nascondono i terroristi
“Non possiamo accettare un numero alto di profughi siriani. Perché potrebbero trasformarsi in una seria minaccia alla sicurezza dei nostri cittadini. Anche se la maggior parte...

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“Non possiamo accettare un numero alto di profughi siriani. Perché potrebbero trasformarsi in una seria minaccia alla sicurezza dei nostri cittadini. Anche se la maggior parte sono persone normali tra di loro potrebbero nascondersi terroristi”.




Non è la dichiarazione virgolettata di un leader di un paese europeo o di un membro del parlamento statunitense. Anche se è probabile che digitandone la versione inglese la possiate trovare, in forma molto simile, pronunciata da diversi leader europei e statunitensi (e con qualche variante anche italiani). Questa sarebbe la giustificazione addotta da alcuni leader dei paesi più ricchi del Golfo Persico per giustificare il loro rifiuto a prendere in considerazione azioni di ospitalità nei confronti dei profughi provenienti dalla Siria. È quanto riportano oggi numerosi siti di informazione anglosassoni.



Quanto sta accadendo sulla Rotta Balcanica - che conduce i profughi siriani, in fuga dalla guerra, dalla Turchia ai paesi dell’Unione europea, sembrava essersi trasformato unicamente in un atto di accusa nei confronti della politica europea. La situazione, a livello politico ed emotivo, era diventata ancora più pesante (e urgente) quando la foto del piccolo Aylan, affogato nelle acque di fronte a Bodrum in Turchia, è diventata virale trasformandosi in un vero e proprio caso (non solo mediatico) internazionale.

Mentre l’Europa si interrogava sulle proprie colpe e responsabilità e i governi, come continua ad avvenire in queste ore, aprivano alla cosiddetta “ricollocazione” di profughi nei loro paesi, qualcosa ha cominciato a muoversi anche nel mondo arabo. Le parole di Abdullah Kurdi, padre di Aylan, sono risuonate come un appello – per alcuni una vera e propria accusa – ai leader dei paesi arabi più ricchi affinché intervengano facendosi carico sia dell’emergenza umanitaria sia della situazione politica dell’area, contribuendo a mettere fine alla guerra in Siria. Sui social sono, così, diventate numerose le iniziative che mettono sotto accusa i leader degli Stati del Golfo.



E sono cominciate ad arrivare le prime reazioni da parte de governi di questi paesi. Reazioni pienamente “politiche” che fanno appello al fatto che nessuno di questi Stati ha mai firmato la Convenzione sui rifugiati (il che significa che non c’è un obbligo di accoglienza), che comunque vengono fatte donazioni (anche cospicue) a Turchia, Libano e Giordania per destinare aiuti ai molti campi profughi ospitati da questi paesi, che ci sono dei “rischi” legati a un'affluenza elevata di siriani.

A replicare alle giustificazioni (ufficiali o dei media) sono stati soprattutto i britannici, al centro delle polemiche nei giorni scorsi per le posizioni molto rigide nei confronti dei migranti, e nei confronti dei quali l’immagine di Aylan è stata utilizzata come un vero e proprio grimaldello. Il britannico Daily Mail ha riportato i dati relativi alle donazioni effettuate a favore dei siriani. La Gran Bretagna avrebbe, infatti, donato 918 milioni di sterline a fronte dei 387 dell’Arabia Saudita, dei 359 degli Emirati Arabi e dei 157 mila del Qatar.



Per supportate i campi profughi in Turchia, Libano e Giordania i paesi del Golfo hanno donato 589 milioni di dollari che sono appena un terzo dello sforzo economico profuso dagli Stati Uniti.


Dopo l’Europa, che sta cercando di recuperare credibilità in questa complessa crisi internazionale che secondo il Pentagono durerà almeno 20, sono i paesi del Golfo a salire sul banco degli imputati dei media (non solo social) interni ed esterni. E la pressione rischia di diventare difficilmente sopportabile. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero