CITTA' DEL VATICANO - Peace and love è il motto della visita. Sullo sfondo il martirio dei Rohingya, integro e brutale, in attesa di una soluzione...
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Non lo ha fatto nemmeno il Nobel per la Pace che, da leader de facto, si è impegnata a proteggere i diritti e a promuovere la tolleranza «per tutti». Aggiungendo davanti a Papa Bergoglio: «Il nostro governo ha l’obiettivo di fare emergere la bellezza della nostra diversità e di rafforzarla, proteggendo i diritti, incoraggiando la tolleranza e garantendo la sicurezza a tutti».
Aung San Suu Kii è pragmatica e fa quello che può, i binari entro i quali può muoversi sono ristretti, la democrazia in Myanmar è fragile, i militari continuano a presiedere ogni passaggio, compresa la conferenza sulla pace con le minoranze etniche – la Conferenza di Panglong - fortemente voluta dalla stessa Aung San Su Kii, la cui terza sessione si terrà nell’ultima settimana di gennaio. Il Premio Nobel lavora sulla possibilità di arrivare alla presenza di osservatori internazionali nello stato del Rakhine ma la via sembra piuttosto accidentata e per gli standard occidentali non può bastare davanti ad un genocidio e così diversi organismi internazionali la hanno accusata di essersi censurata sulla crisi in atto. La hanno incolpata di non avere denunciato subito al mondo stupri, decapitazioni, villaggi bruciati.
Per la città di Oxford questo è stato un motivo più che sufficiente per la revoca ad Aung San Suu Kii della prestigiosa onorificenza «Freedom of Oxford» che la città inglese le aveva assegnato vent’anni fa. Una decisione senza precedenti. Il Consiglio Municipale lo ha annunciato proprio ieri. E’ per via del suo «immobilismo di fronte all’oppressione della minoranza Rohinghya. La nostra reputazione è macchiata da coloro che chiudono gli occhi di fronte alla violenza». Le cose non sono semplici. Il mese prossimo la leader birmana è attesa a Pechino per affrontare questo argomento. La minoranza musulmana si concentrata soprattutto nello stato di Rakhine – dove passa il reticolato degli oleodotti cinesi diretti sul Golfo del Bengala - e dove si registrano violenze non tutte a senso unico, visto che il terrorismo islamico ultimamente ha infettato anche i Rohinghya. Ci sono stati nei mesi scorsi attentati contro l’esercito ai quali i militari di Yangon hanno risposto brutalmente costringendo quasi 600 mila persone a scappare in Bangladesh.
La Cina sembra fermamente orientata a definire la crisi un problema birmano, da risolversi all’interno del Paese senza strascichi internazionali. Forse è anche per questo che la visita di Francesco in Myanmar viene scrutata da Pechino con enorme attenzione.
Lo prova il fatto che il pontefice si è guadagnato una prima pagina sul Global Times, il tabloid pubblicato dal Quotidiano del Popolo, l’organo di stampa del Partito Comunista, la voce cinese più attenta alle questioni di politica estera. Il corsivista cinese conclude con una punta di sarcasmo: «In questo momento sarebbe altamente auspicabile che il mondo si astenesse dal farsi coinvolgere maggiormente nella crisi Rohinghya e così il Papa esercitasse delicatezza e moderazione nel resto della sua visita in Bangladesh e in Myanmar». Intanto a Yangon l’ala più estrema dei monaci buddisti nazionalisti hanno protestato contro la visita di Francesco. Definendo il viaggio del Papa «opprimente» per via delle sue dichiarazioni passate a favore dei Rohinghya. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero