Il nostro premier si è giustamente lamentato della frequenza di vertici europei che sembrano risolutivi ma in cui in realtà non si decide nulla, riunioni che...
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Non è un caso che un accordo, magari funzionale di fronte a un’emergenza ma politicamente discutibile, avvenga sulla questione dei migranti. Pochi dossier come questo sono destinati a far saltare una identità politica assai flebile come quella europea.
La figura stessa del migrante ha richiamato in vita nozioni e concetti che gli “euro entusiasti” consideravano a torto defunti: le frontiere, la sovranità del territorio, in buona sostanza la nazione. Come è accaduto spesso, ma raramente con tanta evidenza, diventa lampante che l’Europa non solo non possiede una posizione comune, ma che le tradizionali, in alcuni casi plurisecolari, politiche estere dei singoli Stati continuano a prevalere. Come non vedere, ad esempio nei confronti della Russia e soprattutto della Turchia, la permanenza di una politica di Berlino già rintracciabile ai tempi di Bismarck? E l’ostilità alla Turchia di Parigi non è animata dalle stesse ragioni per le quali storicamente il quai d’Orsay non ha mai potuto sopportare Istanbul? L’unico momento in cui queste “costanti” non hanno funzionato, bisogna ammettere, fu durante la guerra fredda, quando il cervello politico dell’Europa occidentale stava fuori d’Europa, cioè a Washington.
Forse non aveva torto il vecchio De Gaulle quando ripeteva che la politica estera dei “popoli” ha una durata che si espande nei secoli, di certo oggi suonano profetici i rimproveri di Margaret Thatcher, allora bollati come sterile “nazionalismo”.
Il Messaggero