«Prima gli italiani», ripete Salvini. Ma quali? I lombardi e veneti, o tutti? Sono interrogativi legittimi di fronte alla mobilitazione delle giunte regionali di...
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All’interno della Lega, come ha scritto ieri su queste colonne Alessandro Campi, il successo del referendum segnerà il ritorno della vecchia linea «padana» a dispetto del disegno salviniano di «Lega dei popoli», cioè di un partito nazionale. La consultazione però avrà anche un effetto su Forza Italia, costretta a seguire il Carroccio in questa corsa che, però, potrebbe costare al partito del Cavaliere numerosi voti nelle regioni del Sud, dove già è debole. Quello che però a noi preoccupa è il «precedente» introdotto da questo referendum.
Guardiamo alle date: una decina di giorni dopo il referendum lombardo-veneto, previsto per il 22 ottobre, si voterà in Sicilia, cioè in una regione a statuto speciale, per di più con una lunga storia di «autonomismo».
Nessuno pensa più seriamente che tale prerogativa abbia portato, almeno negli ultimi decenni, la Sicilia a un suo sviluppo virtuoso; anzi molti ne hanno denunciato gli effetti perversi, anche sulla gestione dei conti pubblici.
Anche per questo, sia detto en passant, andrebbe ripensata tutta la questione delle regioni a statuto speciale, figlia di un tempo storico ormai passato. Eppure, in tutte le forze politiche impegnate nella campagna elettorale siciliana, c’è ancora chi rivendica maggiore autonomia da Roma. Dopo il 22 ottobre, con il risultato scontato in Lombardia e in Veneto, essi saliranno ancora più baldanzosamente a cavallo, generando una rincorsa di promesse, che è l’ultimo regalo di cui hanno bisogno i siciliani (e gli italiani).
Ma poi, a quel punto, se i «lombardi» e i «veneti» vogliono più autonomia, perché allora non altri, perché non i «campani» o i «pugliesi»? Le vie della demagogia sono, come noto, infinite. E nel Sud, diversi consigli regionali sono agitati da incredibili pulsioni «neo-borboniche», in memoria del Regno delle Due Sicilie. Quella che si è spinta più lontana è la Puglia. Qui il consiglio regionale ha approvato l’introduzione di una «giornata della memoria» per ricordare la caduta di Gaeta, cioè il crollo dei Borboni, il 13 febbraio 1861. Cosa c’entra, direte voi, l’assurda nostalgia verso Franceschiello e l’astio verso i cattivi piemontesi venuti a «invadere» il Mezzogiorno, con la Lombardia e il Veneto?
Almeno un punto in comune tra Emiliano, Zaia e Maroni c’è: la messa in discussione, in forme e modi diversi, del decreto Lorenzin sui vaccini e in particolare sull’iscrizione dei bambini a scuola. Non che le singole regioni possano fare molto: ma ancora una volta comune è la contestazione simbolica dello «Stato centrale», la carezza alle pulsioni più irrazionali, il tentativo di farne un uso strumentale, cioè a fini elettorali.
Nel giorno in cui abbiamo assistito, a Madrid, a uno scontro serissimo tra le prerogative del Parlamento nazionale e quelle della Giunta di Barcellona, che vuole scindersi, cioè creare la «nazione catalana», questi colpi all’unità nazionale non vanno neppure da noi sottovalutati. Certo, Maroni e Zaia non si dichiarano scissionisti; anche perché ipotetici futuri Stati padani o veneti dovrebbero, in concreto, accollarsi una quota del debito pubblico nazionale ed essere sottoposti, né più né meno, al pagamento delle spese che dovrà affrontare il Regno Unito dopo la Brexit. Però il referendum finirà per accentuare una divisione tra italiani del nord e italiani del sud: sempre deleteria, ma perniciosissima soprattutto in tempi ambigui e difficili.
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Il Messaggero