Vi sono momenti della storia nei quali molti sintomi, prima indistinti o sottovalutati, si condensano in un blocco esplosivo che semina allarme nel mondo. Uno di questi momenti...
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Percepire la portata del rischio per tutto ciò che è espressione della civiltà occidentale diviene così un dovere politico e morale al quale nessuno dovrebbe sottrarsi. Invece, come osserva qualche commentatore “i governi europei stanno riflettendo sui danni provocati dall’Isis” e riflettono con animo distaccato e percezioni talora remote su ciò che accade. Gli Stati Uniti, che hanno la principale responsabilità nell’area, preferiscono limitarsi alla risposta affidata all’aviazione, come del resto gli altri paesi sinora intervenuti. La Turchia, che è il paese più esposto, esita a muovere le sue forze di terra schierate lungo il confine e pone come condizione (d’intesa con l’Iran) che l’intervento sia diretto a liberare la Siria da Assad (che in questo momento è il male minore) mentre in realtà teme che un intervento possa rafforzare il separatismo curdo. Insomma le contraddizioni e le ambiguità si assommano, mentre la casa brucia. L’idea dell’amministrazione Obama, che sia sufficiente l’esercizio di uno smart power, cioè di un potere di persuasione, capace di spingere gli altri ad azioni più risolute viene contraddetta dai fatti quotidiani. Invece tutti i paesi che hanno conosciuto, come gli Stati Uniti, i pericoli dell’estremismo islamico dovrebbero rendersi conto della necessità di agire prima che sia troppo tardi. Si tratta di uno “scontro di civiltà”, come nel 1996 diceva Hungtinton, o di una visione allarmistica? Ma è sufficiente ascoltare le enunciazioni e guardare alle azioni degli uomini del Califfato per capire che il rischio esiste davvero poiché il Medio Evo islamico sia sconfitto a favore di una visione più aperta dell’islamismo.
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Il Messaggero