Kobane, i raid frenano l’avanzata Isis

di Ennio Di Nolfo
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Mercoledì 8 Ottobre 2014, 23:56 - Ultimo aggiornamento: 9 Ottobre, 00:02
Vi sono momenti della storia nei quali molti sintomi, prima indistinti o sottovalutati, si condensano in un blocco esplosivo che semina allarme nel mondo. Uno di questi momenti pare avvicinarsi con una rapidità imprevista e con una carica di violenza impressionante. Sono, questi, i casi rispetto ai quali si dimostra la capacità degli uomini di stato, che non guardano solo al proprio interesse. Ma hanno il coraggio di compiere scelte impopolari, difficili, contraddittorie rispetto a un passato anche recente e capiscono che bisogna cogliere tutti questi segnali con prontezza e agire di conseguenza. È sin troppo evidente che in questi giorni i segnali giungono dal Medio Oriente e hanno come simbolo la battaglia che, con sorti apparentemente alterne, si combatte per il controllo della città di Kobane, un piccolo centro di poche decine di migliaia di abitanti (prima dell’aggressione) situato nel distretto di Aleppo, in territorio siriano. Lo scontro per il controllo di Kobane è un segnale forte poiché esso mette in evidenza tutti i motivi che riflettono la crescita del Califfato. Mette in evidenza i rischi drammatici che l’avvenire prospetta, le contraddizioni della diplomazia, le esitazioni di coloro che non capiscono la portata del pericolo, le paure delle vittime, le complicità di chi guarda con malcelata approvazione la disgregazione dell’unità islamica e pensa che questa gli rechi giovamento. Solo con estrema leggerezza si può sottovalutare la portata dei rischi. Il Califfato islamico, erede ancora più risoluto e più violento di Al Qaeda, non si propone gesti simbolici che gettino in allarme tutto il mondo. Opera invece in modo coeso, forte e sistematico. Gli uomini che lo rappresentano giungono dalla guerriglia siriana ma anche dalle sacche islamiche di tutto il mondo. Ora intendono insediarsi, in un modo risoluto e ben armato, nell’area più ricca delle province sunnite dell’Iraq e della Siria e di lì si pongono come centro propulsore di un cambiamento più vasto. Nelle predicazioni declamano l’estensione della sharia in tutto il mondo; più realisticamente il Califfato ha le sue radici nell’estremismo sunnita che tende a emarginare i moderati di ogni nazione araba e a schiacciare il nemico sciita (cioè l’Iran, l’Iraq meridionale, quella parte della Siria ancora soggetta ad Assad). Il vero punto critico sta nel fatto che la nozione di Califfato intesa dai seguaci dell’Isis si estende a buona parte dell’antico impero ottomano. Quasi nessuno ha sottolineato la costituzione a Derna, in Libia, di un governo legato al Califfato. Invece questa è proprio l’espressione dell’imperialismo territoriale che anima la sua evoluzione.



Percepire la portata del rischio per tutto ciò che è espressione della civiltà occidentale diviene così un dovere politico e morale al quale nessuno dovrebbe sottrarsi. Invece, come osserva qualche commentatore “i governi europei stanno riflettendo sui danni provocati dall’Isis” e riflettono con animo distaccato e percezioni talora remote su ciò che accade. Gli Stati Uniti, che hanno la principale responsabilità nell’area, preferiscono limitarsi alla risposta affidata all’aviazione, come del resto gli altri paesi sinora intervenuti. La Turchia, che è il paese più esposto, esita a muovere le sue forze di terra schierate lungo il confine e pone come condizione (d’intesa con l’Iran) che l’intervento sia diretto a liberare la Siria da Assad (che in questo momento è il male minore) mentre in realtà teme che un intervento possa rafforzare il separatismo curdo. Insomma le contraddizioni e le ambiguità si assommano, mentre la casa brucia. L’idea dell’amministrazione Obama, che sia sufficiente l’esercizio di uno smart power, cioè di un potere di persuasione, capace di spingere gli altri ad azioni più risolute viene contraddetta dai fatti quotidiani. Invece tutti i paesi che hanno conosciuto, come gli Stati Uniti, i pericoli dell’estremismo islamico dovrebbero rendersi conto della necessità di agire prima che sia troppo tardi. Si tratta di uno “scontro di civiltà”, come nel 1996 diceva Hungtinton, o di una visione allarmistica? Ma è sufficiente ascoltare le enunciazioni e guardare alle azioni degli uomini del Califfato per capire che il rischio esiste davvero poiché il Medio Evo islamico sia sconfitto a favore di una visione più aperta dell’islamismo.