NEW YORK – Nel 2005, al-Qaeda dovette umiliarsi. L’allora vice di Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri, scrisse una lettera al collega Abu Musab al-Zarqawi per chiedergli un...
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Oggi l’Isis si vanta di essere diventato uno Stato, e le intelligence di altri Paesi confermano che ha un complesso e articolato sistema di finanziamento. E tutti sono d’accordo nel riconoscere che strangolarlo sarà molto più difficile che non strangolare le finanze di al-Qaeda. Quella si manteneva con gli aiuti internazionali, ed era possibile bloccarli, questi si finanziano in gran parte con l’estorsione ai danni dei disgraziati che finiscono sotto il loro tallone.
Originariamente era sembrato che per mettere i miliziani in ginocchio fosse sufficiente troncare il reddito che ricavano dal petrolio. Ma gli Stati Uniti con l’aiuto degli alleati hanno bombardato quasi tutta la spina dorsale di questo traffico: i pozzi petroliferi in Siria e nel nord dell’Iraq, le raffinerie e le stazioni di servizio.
Il presidente Barack Obama aveva resistito davanti a questi bombardamenti, per timore di causare vittime innocenti. Ma il Pentagono ha adottato la tattica di spargere migliaia di volantini che annunciano il bombardamento, per dar tempo ai civili di fuggire. Lo ha fatto ad esempio lunedì scorso, prima di mandare sei aerei a colpire le autocisterne: ne hanno distrutte 116, di fatto azzoppando la capacità dell’Isis di esportare di contrabbando il petrolio generato nelle regioni sotto il suo dominio.
E tuttavia, i soldi all’Isis non mancano. Anche perdendo una buona parte del reddito petrolifero il gruppo terrorista ha oramai un sistema di estorsione che gli esperti paragonano a quello adottato dal Farc in Colombia, il gruppo guerrigliero marxista che per 40 anni ha taglieggiato le popolazioni e le aziende che avevano uffici localmente. Secondo varie ricostruzioni, l’Isis riscuote tasse, pedaggi, pizzi, in ogni campo. Preleva una percentuale dei salari e chiede tangenti alle aziende, impone tasse sulla raccolta dei rifiuti e la consegna del gasolio da riscaldamento, riscuote pedaggi sulle strade e chiede ai non-islamici di pagare uno speciale contributo, la jizya, pena la morte. Il ministro delle finanze, Abu Salah, permette perfino di saccheggiare i luoghi archeologici in cambio del 20 per cento del ricavato delle vendite.
L’agenzia Thomson-Reuters calcola che – anche senza i pozzi di petrolio – il califfato può contare su quasi 3 miliardi di dollari all’anno. E secondo vari esperti, ascoltati dalla rivista Foreign Policy, l’unico modo per fermarli, oltre a continuare a tenere a secco i pozzi di petrolio, è di ridurre progressivamente il territorio sotto il loro controllo: meno territorio, meno “sudditi”, meno possibilità di imporre tasse e taglieggiamenti.
Meno soldi, meno “glamour” e meno abilità di arruolare giovani e mantenere una milizia. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero