Ilva/ Il realismo che serve per non fallire

Ilva/ Il realismo che serve per non fallire
Ieri la vicenda Ilva è stata arroventata dai commenti del vicepremier Luigi Di Maio. Che di fatto ha cavalcato le...

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Ieri la vicenda Ilva è stata arroventata dai commenti del vicepremier Luigi Di Maio.

Che di fatto ha cavalcato le osservazioni dell’Anac come via libera a considerare irregolare la gara che ha visto 14 mesi fa l’aggiudicazione dell’azienda commissariata alla cordata ArcelorMittal. L’ex ministro Carlo Calenda ha risposto per le rime, osservando che la stessa Anac premette che non ha potuto condurre alcun accertamento ma ha potuto esaminare solo le carte passatele da Di Maio. In ogni caso, sostiene Calenda ribattendo all’Anac, un rilancio dell’offerta da parte della cordata soccombente AcciaItalia a gara chiusa con la vittoria di ArcelorMittal non era possibile: si sarebbe dovuto ricominciare daccapo. Né il protrarsi delle bonifiche ambientali a gara aperta avrebbe potuto, se assunta in anticipo, far presentare nuovi acquirenti, visto che già AcciaItalia nasceva dall’iniziativa del governo per impedire che Arcelor Mittal fosse l’unica candidata. Infine, la protrazione delle prescrizioni ambientali al 2023 a gara chiusa non era un favore ai vincitori ma un atto dovuto in ragione dei tempi trascorsi.

Vedremo a questo punto le conclusioni dell’indagine amministrativa annunciata da Di Maio al Mise. L’alternativa è richiedere per la quarta volta ad ArcelorMittal di rimettere mano al prezzo di aggiudicazione e agli investimenti fino a 5,1 miliardi pattuiti, alla completa garanzia sulla manodopera, e tornare a comprimere i tempi del risanamento ambientale. Ieri la cordata si è dichiarata disponibile a reincontrare il governo. L’incognita è che, tirando troppo la corda, scatti il recesso dei vincitori, con il rischio di penali richieste allo Stato fino a 4 miliardi di euro.

La chiusura dell’Ilva sarebbe un colpo micidiale all’economia italiana e innanzitutto a quella del Sud, visto che verrebbe meno il primo datore privato del Mezzogiorno con 20 mila famiglie per strada, comprendendo la prima fascia dell’indotto. Per capire quale possa essere la via alternativa a cui pensa il governo, bisogna ripartire dal contratto di governo Lega-M5S. Sull’Ilva: l’intesa prevede testualmente «un programma di riconversione economica basato sulla chiusura delle fonti inquinanti, per le quali è necessario provvedere alla bonifica, sullo sviluppo della green economy e delle energie rinnovabili e sull’economia circolare». In altre parole: chiusura senza appello. 
Bel problema, visto che l’attuale gestione commissariale deve tutelare i creditori dell’azienda. Senza i proventi risultanti dalla vendita, lo Stato dovrebbe mettere mano a oltre 2,5 miliardi di risorse per i creditori, oppure dovrebbe assumersi la responsabilità di una legge ad hoc per annullarne il diritto, una norma espostissima all’impugnativa costituzionale. In tal caso, spenti gli altoforni e condannati alla rottamazione gli attuali impianti, i tempi per ottenere le autorizzazioni e per compiere davvero le bonifiche integrali sono prudenzialmente calcolabili in almeno 4 anni, con tutti i 14 mila dipendenti assunti – questa è la promessa sottintesa – per le bonifiche stesse. Al miliardo e duecento milioni ricavati dalla transazione con la famiglia Riva, bisognerebbe aggiungerne almeno un altro paio.

In sintesi estrema, se non si vuole abbattere il diritto dei creditori, servono come minimo 4-5 miliardi per realizzare la prima fase delle promesse governative. Dopodiché resterebbe aperto il problema di come impiegare e come pagare i 14 mila dipendenti dell’azienda: tutti potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza? Altri miliardi pubblici, per quanti anni? Per desertificare l’area produttiva? E accrescere ulteriormente le importazioni di acciaio dall’estero? Si ricorda che in questi 6 anni di esproprio giudiziario già l’abbassamento della quota produttiva da 12 a 5 milioni di tonnellate annue ha costretto vasta parte degli utilizzatori italiani di acciaio prodotto a Taranto a rivolgersi all’estero. A cominciare da Fiat Auto, che ha bussato a fornitori tedeschi.


Sarà questo, l’amaro destino dell’Ilva ripubblicizzata? Sarebbe una sconfitta enorme per tutti. La via del realismo dovrebbe imporre nuovi incontri con ArcelorMittal ma volti non a rompere, bensì ad accelerare la presa in carico degli impianti che farebbe cessare l’uso di cassa pubblica da parte della gestione commissariale - ben 1 miliardo – ormai al lumicino. Vedremo se sarà la ragione, a prevalere. Altrimenti, sarebbe un pessimo inizio per la politica industriale del “governo del cambiamento”. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero