Se Massimo Bossetti fosse un personaggio da romanzo, sarebbe un personaggio senza volto: sarebbe chiunque e nessuno. Tutto quello che si sa di certo su di lui come persona, e non...
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Ci hanno detto che su Facebook mandava foto di animali e di figli e di se stesso, e scriveva frasi a effetto come tutte le frasi a effetto di cui rigurgita lo specchio magico digitale; in certe foto, un cagnolino in braccio e lo sguardo perduto, sembra somigliare al mitico dottor House: ma House è un genio pazzoide della medicina che sa tutto e vive di psicofarmaci, ed è una creazione televisiva, e Bossetti è un operaio-artigiano che per sua stessa ammissione è un “ignorantone” che gira con un camioncino, ed è reale. Bossetti è soprannominato in giro “il favola”: un epiteto che parla del racconto di sé che Bossetti fa agli altri e a se stesso, un racconto che lo svela un personaggio inconcludente che potrebbe essere uscito dal mondo provinciale di Piero Chiara aggiornato ai tempi di Facebook. Poi di colpo, incrociato al dna di Anonimo 1 e a una storia di dna che è essa sì un romanzo, Bossetti diventa l’assassino insensato e feroce di una bambina: per chi lo accusa è un sadico che gode sessualmente del terrore inflitto a una creatura umana, per chi lo difende una sorta di sfigato incapace persino di cancellare le tracce.
E allora comincia ad apparire il personaggio: che si dichiara teatralmente innocente, che non vuole parlare ma che convince della propria innocenza uno dei suoi difensori al punto da spingerlo a dichiarare in aula di essere certo dell’innocenza del difeso, che dice di voler guardare negli occhi i familiari di Yara perché a suo dire non ha nulla da nascondere: solo da accusato, e ancora più da incriminato, Bossetti “il Favola” sembra assurgere allo status di personaggio. Ma anche così Bossetti non somiglia ai protagonisti delle storie criminali oggi ricostruite nei docufilm, e continua a somigliare di più a un “balordo” di Piero Chiara piuttosto che a un tenebroso “eroe” del male. C’è poco da fare: se Bossetti fosse un personaggio sarebbe una sorta di anonimo, e se fosse lui l’assassino di Yara sarebbe un esempio perfetto della banalità del male. Non ispira pietà o terrore, e meno che mai trasuda da lui quella fascinazione del Male diabolico che fa capolino in molti altri protagonisti di casi criminali. E il racconto dei vicini su di lui racchiude la solita cantilena che risuona quando si interpella il coro vago della gente normale: era un bravo ragazzo, era un tipo tranquillo, andava sempre a messa, così dice la vaga voce della gente, ed è come se non dicesse niente. Il male è banale?
Se Bossetti è colpevole non ci sono dubbi: il male è banalissimo, la sua banalità è la più perfetta delle maschere, e niente è più atroce di questa capacità del male di dissimularsi persino a se stesso, perché la banalità del male non toglie al male il suo orrore, lo rende soltanto più subdolo e inafferrabile: se Jack lo Squartatore è romanzesco e appariscente come l’Hannibal del Silenzio degli innocenti, allora l’anti-eroe banale dei nostri tempi grigi sarà l’uomo invisibile, l’everyman che è tutti e nessuno, l’uomo senza anima che invano cerchiamo di decifrare, l’uomo senza qualità che può perpetrare crimini orrendi protetto dal suo essere uno qualunque.
Il Messaggero