Accento della 'working-class', catena al collo o cuffie, barba, maglia nera e rossa. Abdullah-X è un musulmano britannico protagonista su YouTube di una serie...
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Abdullah-X si rivolge ai giovani occidentali chiedendo loro di considerare le vere esigenze delle donne e dei bambini in Siria, di assumersi le proprie responsabilità davanti alle famiglie e riflettere sulle motivazioni reali di gruppi, come appunto l'Is, che sostengono di combattere per l'Islam. «C'è una responsabilità rispetto alla Siria, quello di essere ben informati e non male informati», afferma Abdullah-X.
Il cartoon è l'ultima arma impiegata nella guerra di propaganda contro l'Is sul web, mentre aumentano le pressioni dei legislatori statunitensi sui social media come Facebook, Twitter e YouTube, dopo le stragi di Parigi e San Bernardino, affinché vigilino sulla proliferazione di contenuti jihadisti sulle loro piattaforme. La propaganda anti-Is è in cima all'agenda dei grandi gruppi che controllano i social - evidenzia il Financial Times - e il cui obiettivo dichiarato è creare più contenuti per contrastare l'estremismo. In un editoriale apparso la scorsa settimana sul New York Times, il presidente di Google (proprietario di YouTube) Eric Schmidt, ha chiesto strumenti per favorire la riduzione delle tensioni sui social media «un pò come correttori ortografici, ma per l'odio e molestie».
Facebook, YouTube e Twitter, che aiutano alcune ong a realizzare contenuti contro l'estremismo, hanno già formato dei team per rispondere alle segnalazioni di post o video legati al terrorismo, vietati su tutte le piattaforme. Solo Facebook ha centinaia di persone in quattro uffici in tutto il mondo che si occupano di questo lavoro.
«Il mio obiettivo - spiega il creatore - non è di far sentire la Gran Bretagna più sicura; se questo sarà un risultato di quello che faccio mi fa piacere, ma il mio obiettivo è un altro: è aiutare i giovani, salvare le loro vite. In Gran Bretagna vivono tre milioni di musulmani; ci saranno 1000 o al massimo 3000 individui radicalizzati. Non è un fenomeno numericamente così grande. Ma ci vorranno trenta o quarant’anni almeno per risolverlo: è un problema generazionale». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero