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Il dubbio che si stesse scoperchiando il vaso di Pandora ha preso a diffondersi mercoledì mattina. Il 4 di novembre, mentre il Dpcm aveva ormai assunto una forma definitiva, i numeri che avrebbero dovuto alimentare l’algoritmo - la formula con i famosi 21 indici a cui è demandata la responsabilità di “colorare” l’Italia dividendola in fasce di rischio - tardavano ad arrivare. «Valle d’Aosta, Campania, Bolzano, Calabria e Liguria ce li hanno inviati proprio all’ultimo secondo» e «a volte incompleti» si racconta tra chi stava lavorando all’applicazione del nuovo testo.
A mancare era la benzina che doveva far partire il meccanismo nazionale, con il rischio quindi che si restasse al palo. Eppure non si poteva lasciare indietro qualcuno, così i tecnici si sono accontentati anche dei dati parziali rischiando però di penalizzare una Regione piuttosto che un’altra. L’esempio emblematico è la Calabria che a fronte di numeri assoluti bassi, paga soprattutto una scarsa disponibilità di terapie intensive e una struttura di contact tracing precaria. Cosa sarebbe successo se la Regione avesse prodotto un dato completo anziché parziale? Avrebbe evitato di diventare zona rossa? Ora è impossibile stabilirlo, la formula che aggrega i 21 indici non è nota. Sembra però innegabile che il ritardo possa giocato un qualche ruolo.
I DUBBI
E allora non resta che capire cosa abbia dettato questi ritardi. Il primo fattore riguarda il sistema messo in piedi per la comunicazione dei numeri del virus dalle Regioni a Roma. Ad oggi non esistono infatti formati standard a cui bisogna fare riferimento e allora - grande classico italiano - ognuno fa come gli pare.
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Criteri come «i posti in rianimazione e i posti letto Covid» creano un effetto paradosso distorsivo: «Se ad esempio due regioni hanno lo stesso numero di abitanti e lo stesso indice di trasmissione virale ma una ha meno posti in rianimazione e l’altra ne ha di più, succede che quella che ha meno posti entra in lockdown prima dell’altra e diminuisce il numero di casi e morti» spiega Crisanti. Viceversa quella che ha più posti in rianimazione rimane in zona gialla e «di fatto più persone vanno in rianimazione e più persone muoiono. A me pare evidente che i dati abbiano un’affidabilità bassissima» conclude. Se poi alcuni di quegli indicatori sono anche manipolabili da parte delle Regioni che vedono nel diventare “zona rossa” una sconfitta politica - alla vigilia del 3 novembre ad esempio i dati dei ricoveri in terapia intensiva in Calabria sono passati da 26 a 10 con motivazioni giudicate «precarie» dagli esperti - la distorsione diventa ancora più evidente. Basta pensare che incidere sull’affollamento dei reparti può essere davvero semplice: «Può accadere che pazienti border line vengano rimandati a casa invece di essere ricoverati, oppure che altri vengano dimessi prematuramente - dice una fonte che da 20 anni lavora nel sistema sanitario di una delle regioni italiane - E chi può controllare?».
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