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COVID

Zone rosse, gialle e arancioni: Regioni in ritardo, il pasticcio dei numeri inattendibili

Articolo riservato agli abbonati
7 Novembre 2020 di Francesco Malfetano (Lettura 4 minuti)
  • 44
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Il dubbio che si stesse scoperchiando il vaso di Pandora ha preso a diffondersi mercoledì mattina. Il 4 di novembre, mentre il Dpcm aveva ormai assunto una forma definitiva, i numeri che avrebbero dovuto alimentare l’algoritmo - la formula con i famosi 21 indici a cui è demandata la responsabilità di “colorare” l’Italia dividendola in fasce di rischio - tardavano ad arrivare. «Valle d’Aosta, Campania, Bolzano, Calabria e Liguria ce li hanno inviati proprio all’ultimo secondo» e «a volte incompleti» si racconta tra chi stava lavorando all’applicazione del nuovo testo.

A mancare era la benzina che doveva far partire il meccanismo nazionale, con il rischio quindi che si restasse al palo. Eppure non si poteva lasciare indietro qualcuno, così i tecnici si sono accontentati anche dei dati parziali rischiando però di penalizzare una Regione piuttosto che un’altra. L’esempio emblematico è la Calabria che a fronte di numeri assoluti bassi, paga soprattutto una scarsa disponibilità di terapie intensive e una struttura di contact tracing precaria. Cosa sarebbe successo se la Regione avesse prodotto un dato completo anziché parziale? Avrebbe evitato di diventare zona rossa? Ora è impossibile stabilirlo, la formula che aggrega i 21 indici non è nota. Sembra però innegabile che il ritardo possa giocato un qualche ruolo.

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I DUBBI 

E allora non resta che capire cosa abbia dettato questi ritardi. Il primo fattore riguarda il sistema messo in piedi per la comunicazione dei numeri del virus dalle Regioni a Roma. Ad oggi non esistono infatti formati standard a cui bisogna fare riferimento e allora - grande classico italiano - ognuno fa come gli pare. Così sulle scrivanie digitali del ministero arrivano file eseguili solo con programmi diversi, formattazioni sballate, c’è chi giura pure qualche fax con documenti scritti a mano, e copia e incolla fatti di fretta: il rischio in questo caso, non riguarda solo la lentezza nell’elaborazione delle informazioni, ma anche che si commettano errori quando si prova ad utilizzarle. «Le faccio un esempio sul sistema in generale - spiega il virologo e neoeletto assessore in Puglia Pier Luigi Lopalco - i medici di medicina generale in Italia raccolgono una mole di dati impressionante ma sono distribuiti su programmi diversi. Anche nella stessa Asl se ne trovano di differenti, per cui quando bisogna trasferire le informazioni a livello regionale o, peggio, nazionale si genera caos». Il ritratto è quello di un Paese non informatizzato (o almeno non del tutto, in alcune Regioni le cose funzionano), in cui a farla da padrone è la farraginosità. Un bizantinismo che non sembra neppure essere l’unico difetto che affligge la formula delle fasce di rischio, le Regioni e quindi il Paese. Il secondo fattore infatti, riguarda l’affidabilità dei dati utilizzati. «Per far funzionare il sistema dei 21 indici servirebbe un tracciamento accurato. Ma se le stesse Regioni hanno ammesso più volte che il sistema è saltato da settimane, che attendibilità possono avere i dati raccolti?». Ad aprire lo squarcio è Andrea Crisanti, docente di microbiologia all’università di Padova, da tempo critico sul tema. «La fanno passare per una cosa fatta bene - aggiunge - ma non lo è».

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Criteri come «i posti in rianimazione e i posti letto Covid» creano un effetto paradosso distorsivo: «Se ad esempio due regioni hanno lo stesso numero di abitanti e lo stesso indice di trasmissione virale ma una ha meno posti in rianimazione e l’altra ne ha di più, succede che quella che ha meno posti entra in lockdown prima dell’altra e diminuisce il numero di casi e morti» spiega Crisanti. Viceversa quella che ha più posti in rianimazione rimane in zona gialla e «di fatto più persone vanno in rianimazione e più persone muoiono. A me pare evidente che i dati abbiano un’affidabilità bassissima» conclude. Se poi alcuni di quegli indicatori sono anche manipolabili da parte delle Regioni che vedono nel diventare “zona rossa” una sconfitta politica - alla vigilia del 3 novembre ad esempio i dati dei ricoveri in terapia intensiva in Calabria sono passati da 26 a 10 con motivazioni giudicate «precarie» dagli esperti - la distorsione diventa ancora più evidente. Basta pensare che incidere sull’affollamento dei reparti può essere davvero semplice: «Può accadere che pazienti border line vengano rimandati a casa invece di essere ricoverati, oppure che altri vengano dimessi prematuramente - dice una fonte che da 20 anni lavora nel sistema sanitario di una delle regioni italiane - E chi può controllare?».

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Ultimo aggiornamento: 23:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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