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Negli ultimi tre anni ha pubblicato una raccolta (77+7) e due biografie (È andata così e Una storia), si è raccontato in una serie su RaiPlay (pure questa intitolata È andata così) e in un film-documentario (30 anni in un giorno): «Ho esagerato con la nostalgia, ma durante il Covid ero una tigre in gabbia», ammette Ligabue.
Ora il 63enne rocker di Correggio torna a guardare avanti. E a parlare al plurale: venerdì esce il nuovo album Dedicato a noi. Interrompe il silenzio discografico più lungo della sua carriera, quattro anni e mezzo, tanti quanti ne sono trascorsi dal precedente Start. Il disco contiene 11 brani, compresi i singoli Riderai e Una canzone senza tempo. «Ho sentito il bisogno di fare i conti con il presente - tra pandemia, guerra, cambiamento climatico, cronaca nera - stringendomi a chi ho vicino (le batterie di tutto l'album sono suonate dal figlio 25enne Lenny, ndr)», dice il cantautore, che il 9 ottobre darà il via dall'Arena di Verona al tour.
A chi si rivolge con quel «noi»?
«Sono tanti "noi". Quello di coppia, della famiglia, del rapporto con il mio pubblico. E poi c'è un "noi" più idealizzato, che assomiglia molto a quello di cui cantai nel 1990 in Non è tempo per noi».
Cioè?
«È il "noi" di chi continua a sentirsi fuori moda e fuori posto.
Ha provato a scrivere una canzone con l'intelligenza artificiale?
«Per carità: resto un uomo del Novecento».
In "Una canzone senza tempo" racconta pregi e difetti di Roma. Che rapporto ha con la Città Eterna?
«Quelli in programma il 18 e 19 novembre al Palazzo dello Sport saranno rispettivamente il sessantaseiesimo e il sessantasettesimo concerto nella Capitale in trent'anni. Faccia un po' lei. È una città che ti incanta. I problemi sono sotto gli occhi di tutti. E tutti facciamo il tifo. Comunque quella canzone mi ha procurato un bel guaio: sono stato bersagliato dai laziali, per l'omaggio a Totti nel testo».
Cosa le hanno detto?
«Lasciamo perdere (ride, ndr). Io sono da sempre un ammiratore di Francesco: è l'emblema della bandiera. E un simbolo, per la città».
Ci sono ancora le bandiere, nel calcio moderno?
«Mah. Spero che Barella non deluda noi interisti. Ma chi può dirlo? Magari arriva un club della Premier con 80 milioni e arrivederci e grazie».
E nella musica, invece, le bandiere esistono?
«Per me sì. Penso a De Andrè, Guccini, De Gregori, Battisti, Dalla».
Si è mai sentito tradito da uno di loro?
«Tradito è un parolone. Però ho sofferto molto quando Battisti, l'emblema della canzone popolare, dopo la fine del sodalizio con Mogol si è messo a fare quei dischi con Panella».
Lei pensa di aver tradito qualcuno?
«I laziali (ride). Scherzi a parte, sicuramente ho deluso. Per i fan della prima ora è chiaro che certe cose fatte dopo il grande successo siano suonate un po' più pop rispetto alle prime. Ma nella vita si cambia».
Qual è la canzone scritta l'anno scorso in hotel a Parigi quando aveva il Covid?
«Quel tanto che basta, la numero 7 del disco. Un numero ricorrente nella mia vita e al quale sono legato. Ha un ruolo specifico, nell'album. È la canzone della quiete, della pacificazione, C'è il sottoscritto che riesce finalmente a godersi il presente. Senza aspettarsi altro dalla vita».
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Il Messaggero