«Il suo sorriso, la sua tranquillità, la dedizione al lavoro e soprattutto a sua figlia, la sua ragione di vita. Questa è mia sorella Micaela». Una donna...
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Il respiro le si è fermato in fondo alla gola, venerdì scorso poco dopo le 13. «Ci hanno detto che Micaela aveva avuto un incidente, è assurdo quello che le è capitato, proprio a lei che pensava solo a lavorare». La vita di questa donna, 47 anni, a cui i medici hanno dovuto amputare la mano sinistra e che resta sedata nel reparto di terapia intensiva con la testa rasata a causa delle ferite e dei traumi, si legge negli occhi straziati della figlia, studentessa universitaria alla Sapienza, che ieri è rimasta al suo capezzale per l’intera giornata. «Vogliamo adesso giustizia – aggiunge la sorella – la metro non è sicura, non possono accadere cose del genere». Con difficoltà prova a mettere insieme i pezzi di «un’assurda tragedia» e ricorda sua sorella, una donna minuta ma «temprata dalla vita», che non amava truccarsi. Giusto un filo di matita sugli occhi e un tocco di rossetto rosa perla che portava sempre in borsa, per rianimare, dopo il lavoro, il volto stanco e per essere sempre ordinata di fronte agli altri.
UNA VITA SEMPLICE
Lavorava «con dignità e tenacia» per vivere e far studiare la figlia. Mai una distrazione, mai un eccesso. Aveva ritrovato l’amore con un cittadino del Marocco a cui la figlia è molto legata. Le sue giornate, prima dell’incidente, erano scandite da semplici cose e quando poteva, si concedeva con la figlia gite in campagna. Una donna equilibrata che amava e (ama ancora) il volontariato tanto da prender parte molto spesso a raccolte benefiche per i suoi connazionali. A Micaela piace cucinare. I suoi piatti, italiani ma ispirati anche alla tradizione peruviana, animavano le serate con gli amici. A volte li vendeva, proprio per raccogliere fondi da mandare in Perù e li preparava in quella piccola cucina di periferia, in una casa piena di foto e ricordi della sua vita da ragazza e poi di donna. «È buona mia sorella, una persona docile», racconta ancora Myriam. È arrivata in Italia da Huaral, una cittadina in provincia di Lima con il padre Marco e le due sorelle. «Siamo in tutto quattro fratelli – aggiunge Myriam – uno di noi non è in Italia, l’altra invece lavora a Catania, l’abbiamo avvisata». Nel suo paese non ci voleva tornare. La sua vita, rispondeva Micaela a chi glielo chiedeva, era a Roma insieme a sua figlia.
LE CONDIZIONI
La sua famiglia è tutta insieme all’ospedale sulla Gianicolense. Il papà Marco non riesce a parlare ma stringe le mani con riconoscenza ai tanti amici della figlia che iniziano a riempire la sala d’aspetto della terapia intensiva. «È sedata, non parla – racconta ancora la sorella togliendosi il camice e la mascherina protettiva –, non riesco ancora a capire come un uomo, un folle possa andare in giro libero per la città, arrivando a fare del male, poteva ucciderla». Micaela, stando all’ultimo bollettino dei medici, è in condizioni di discreta stabilità clinica, viene mantenuta in sedazione profonda e assistita nelle funzioni vitali di base dalla ventilazione meccanica. Per il momento i sanitari non hanno riscontrato danni cerebrali e nei prossimi giorni la donna dovrà essere sottoposta a nuovi interventi chirurgici per stabilizzare le numerose fratture riportate. «Ora dobbiamo pensare soltanto a lei – conclude Myriam – ma vogliamo giustizia anche se abbiamo paura che quel folle, proprio per le sue condizioni possa non pagare per ciò che ha fatto». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero