Le previsioni del ministero: «Il decreto brucia posti». E sulla ricerca è allarme

Le previsioni del ministero: «Il decreto brucia posti». E sulla ricerca è allarme
Il decreto “dignità” ridurrà l’occupazione di 8 mila posti l’anno, oltre 80 mila nei prossimi dieci anni. La stima, nero su bianco, è...

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Il decreto “dignità” ridurrà l’occupazione di 8 mila posti l’anno, oltre 80 mila nei prossimi dieci anni. La stima, nero su bianco, è stata fatta dallo stesso governo, che l’ha inserita nella relazione tecnica che accompagna il provvedimento. Il decreto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, e dunque le norme, dalla riduzione dei contratti allo stop agli spot dei giochi, entreranno in vigore da oggi.


Intanto c’è l’allarme ricercatori. Il giro di vite previsto dal Decreto Dignità nei contratti a termine potrebbe mettere a rischio il lavoro di molti, con inevitabili ricadute sui progetti. Dal 2010 al 2017 su circa 40 mila assegnisti di ricerca nelle università ad essere assunto è stato appena il 3,1%, stando ai dati di uno studio commissionato da Sinistra Italiana. Un’analisi che conferma la condizione del settore, decisamente a rischio, non solo negli atenei. E la situazione potrebbe presto aggravarsi ulteriormente.

«L’arte di arrangiarsi in Italia c’è, lo sappiamo, ma non ci possiamo lamentare della fuga dei cervelli, se poi non andiamo ad analizzare i perché del fenomeno - commenta Francesca Pasinelli, direttore generale Fondazione Telethon - In questi giorni il governo parla di contratti stagionali per settori specifici come agricoltura e turismo, non si sente però discutere del mondo della ricerca e invece mancano tipologie contrattuali ad hoc. Già il lavoro a termine previsto nel Jobs Act non era adatto al settore, ridurne ulteriormente la durata non può che aggravare il problema». Il limite massimo per il contratto a termine, con il Decreto Dignità, scende da tre a due anni. Tempi quasi irrisori nel panorama della ricerca. E il limite alle proroghe passa da cinque a quattro. «Dopo il completamento del dottorato - spiega Pasinelli - il ricercatore lavora in fasi cosiddette di post-dottorato, in cui sta di fatto completando ancora la sua formazione. Questi periodi possono durare vari anni. Per alcuni ricercatori magari sono di quattro anni, per altri di sette. Tale modalità di lavoro nel nostro Paese non è codificata. Il problema del tipo di contratto era presente già prima, figuriamoci ora con i termini temporali ridotti. È arrivato il momento di riflettere sulle tipologie di contratto da applicare al mondo della scienza. Il settore della ricerca in Italia è ormai in sofferenza da tempo». È questione finanziamenti. Secondo l’annuario Observa 2018, l’Italia investe in ricerca e sviluppo soltanto l’1,3% del PIL e in ricerca di base meno dello 0,34% del PIL. Ed è questione di strumenti di gestione, a partire proprio dai contratti. La mancanza di tipologie ad hoc, infatti, rende complicato pure il reclutamento di ricercatori a livello nazionale e, ancora di più, internazionale. 

LE SOLUZIONI
«Occorrerebbero contratti a termine di durata flessibile – prosegue Pasinelli – ovviamente con salari adeguati. Sono soluzioni che in altri Paesi ci sono, sono efficaci e danno sicurezze, non hanno nulla a che vedere con il precariato. In Italia invece non sono previste, si continua ad andare avanti con contratti che affrontano di volta in volta le opportunità che si presentano ma tutto ciò rende il reclutamento meno competitivo, anche per i tempi più lunghi. 

La circolazione dei soggetti è funzionale a realizzare la migliore ricerca possibile. Il problema non è la fuga dei cervelli in quanto tale ma il fatto che il flusso nel nostro Paese sia unidirezionale, gli italiani vanno via ma gli stranieri non vengono». A determinare la scarsa capacità attrattiva dell’Italia, appunto, sarebbe, oltre ai pochi fondi, la burocrazia farraginosa. E lenta. «I Paesi del Nord Europa rimangono dei modelli e, soprattutto, gli Usa, dove i tempi di accensione e chiusura dei contratti sono snelli – commenta Pasinelli – In Italia, i tempi sono lunghi, pure nelle procedure concorsuali, e i posti disponibili pochi». Un danno per la ricerca e per il Paese. «Tutto questo porta a un progressivo impoverimento del settore che in Italia ha enormi potenzialità. Così si rischia l’obsolescenza». 
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Il Messaggero