A centodue anni, Boris Pahor torna al Salone del Libro. Oggi parlerà di Trieste, luogo di transiti, soggetto e teatro di snodi storici, religiosi e culturali i cui segni...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 6 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
La vicenda forse meno nota, e spesso nell’ombra, torna alla luce in una cronaca-itinerario-viaggio nella memoria documentato, appassionato e veemente che muove dall’arresto a Trieste alle prime torture fino a Dachau. Pahor era finito nel lager perché aveva aderito al Fronte di Liberazione Sloveno. Sopravvisse esercitando il mestiere d’infermiere, ma vide letteralmente morire intorno di denutrizione e di malattia tanti compagni.
Lo scrittore ricorda le tenaglie con cui si trascinavano i cadaveri, le assurde percosse, l’agghiacciante sequenza delle docce, con la rasatura del pube, e poi le bocche perennemente urlanti dei tedeschi, i corpi consunti, ossuti dei prigionieri che si trascinavano nella neve coi loro inadatti zoccoli di legno e le loro casacche zebrate o erano intenti a contendersi il cibo lasciato dai morti.
Pahor fu schedato come italiano pur rifiutando di appartenere a una nazione che, dalla fine della prima guerra mondiale, aveva sempre assimilato il suo popolo.
«Oltre ai cinque milioni di ebrei - dice - nei campi c’era gente di altre dodici nazioni, oppositori al regime nazifascista. Gli ebrei erano gasati, gli altri morivano di freddo, malattia o impiccagione, alla fine tutti andavano nei forni crematori e diventavano cenere per concimare i campi. In tutti i campi c’erano forni crematori.
Quello di Natzweiler in confronto a Dachau era piccolo. Ardevano giorno e notte. Al buio si vedeva il fuoco che bruciava nelle ciminiere, come in una raffineria».
Nel lager si trovò faccia a faccia con l’orrore e l’abiezione più inconcepibili. «Ho fatto una terribile esperienza in mezzo a uomini e corpi che erano annientati come paglia marcia. Ho scritto di quell’esperienza e ho avuto la sensazione che mi stavo liberando del male che avevo vissuto, che restava incollato addosso come sporcizia. Scrivendo era come se mi lavassi. L’orrore poteva inseguirmi per sempre, proiettandolo all’esterno me ne sono liberato. Molti sopravvissuti si sono suicidati incapaci di adeguarsi alla normalità».
LA TRAGEDIA
Gli chiedi se la sua reazione all’orrore sia simile a quella di un personaggio di Necropoli, che sogna lo sterminio dei carnefici. E lui: «All’orrore non si può rispondere con l’orrore. Odiavo il nazismo, non i tedeschi. Volevo che si punissero i colpevoli di quella terribile tragedia, non aggiungere una nuova maledizione a quel popolo. Il perdono è un sentimento complesso. Se comprende il suo errore posso perdonare il mio carnefice. Ho perdonato alcune SS che non si erano pentite che continuavano a fare il loro disumano lavoro fino in fondo. Ma il male non si perdona. Con il racconto, la testimonianza,la condanna si deve impedire che ritorni».
QUATTRO DECENNI
Ha impiegato più di quarant’anni per farsi conoscere in Italia dopo che era stato tradotto e insignito della Legione d’onore in Francia. Di cittadinanza italiana, ma di nazionalità slovena, appartenenza triestina e nascita austroungarica, Pahor deve molto a Necropoli, ripubblicato da Fazi dopo aver circolato per tanto tempo presso un piccolo editore istriano, rifiutato da grandi editori.
Ora però vorrebbe scrivere un’altra Necropoli che parli del fascismo partendo da alcune sue novelle. Vorrebbe raccontare di quella maestra che, quando un alunno parlava sloveno, lo puniva con un rigo di legno rompendogli quattro dita. Il titolo l’ha trovato nel Convivio: Sulla bocca meretrice di questi adulteri. Lo commuove il passo in cui il poeta dice: «Io amo la mia lingua perché è quella in cui si sono amati i miei genitori quando mi hanno concepito». La lingua slovena per scrivere e amare, l’italiano per vivere, insegnandolo nelle scuole. Dice: «Adoro il Dolce stil novo e ho voluto sempre molto bene a Dante. Ai miei studenti proponevo La vita nova. Poi ho amato Leopardi, il Neorealismo, Vittorini, Pavese». Un bagaglio letterario arricchito dall’atmosfera della “mittel-Trieste” di Joyce, Svevo, Saba.
«Ho vissuto nella stessa via di Saba, ma non ho mai avuto il coraggio di andarlo a trovare, non avevo un testo in italiano da proporgli. Joyce e Svevo amarono e capirono Trieste, ma Trieste non ha fatto altrettanto con loro. Del resto da noi nessuno legge un grande come Slataper, per fortuna Elisabetta gli ha dedicato un film così intenso e poetico
Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero