Ferraro e Scattone, eterni colpevoli di un delitto senza né capo né coda

Ferraro e Scattone, eterni colpevoli di un delitto senza né capo né coda
«Hanno sparato a una ragazza all'università». Era da poco passato mezzogiorno del 9 maggio 1997 quando la notizia piombò nelle redazioni dei...

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«Hanno sparato a una ragazza all'università». Era da poco passato mezzogiorno del 9 maggio 1997 quando la notizia piombò nelle redazioni dei giornali. Venti minuti prima, attorno alle 11,40, un proiettile aveva colpito alla testa una studentessa di Giurisprudenza mentre camminava con un'amica in un vialetto della Sapienza. Era l'inizio del caso Marta Russo, una delle storie giudiziarie più controverse degli ultimi decenni che ha profondamente diviso l'Italia tra innocentisti e colpevolisti. Per giorni la Procura e la polizia brancolarono nel buio. Ma piano piano l'attenzione si focalizzò sull'istituto di Filosofia del Diritto della facoltà e in particolare sull'aula numero 6. Il colpo, secondo gli inquirenti, era partito da lì e bisognava individuare chi fosse presente nella stanza all'ora del delitto. All'inizio non c'erano testimoni. Ma con il passare degli interrogatori l'aula si popolò. Quaranta giorni dopo il delitto Gabriella Alletto, una delle segretarie dell'istituto, dopo aver a lungo negato, ricordò all'improvviso di aver visto nella stanza due dottorandi. Entravano in scena Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Il primo, secondo la Alletto, aveva una pistola in mano, l'altro portò via l'arma. Il processo che ne seguì tenne banco per mesi e alla fine gli imputati se la cavarono con una condanna per omicidio colposo e per favoreggiamento: cinque anni e quattro mesi per Scattone, quattro anni e tre mesi per il collega. Ma entrambi hanno continuato a proclamarsi innocenti e la convinzione che prima o poi avrebbero confessato si è rivelata vana. Scattone, a vent'anni dai fatti, abita con la moglie nella casa che era del padre in via dell'Elettronica all'Eur. Dopo tante polemiche, quasi cinquantenne, ha rinunciato all'insegnamento e vive facendo piccole traduzioni. «Non ho niente da dire - dichiara -. Qualsiasi cosa dicessi sarebbe fuori luogo». Salvatore Ferraro, 50 anni esatti, gestisce una libreria vicino all'università insieme alla compagna. Due vite spezzate anche le loro, benchè le lievità delle accuse - omicidio colposo e favoreggiamento - avrebbero permesso ad entrambi di rifarsi un'esistenza. «Il problema - dice un ex collega d'università - è che sono rimasti prigionieri di un caso confuso senza capo né coda. Nessuno ha spiegato esattamente cosa accadde: anche volendo credere all'ipotesi che a Scattone partì un colpo di pistola non si sa né perché né con quale finalità. Gli stessi giudici, comminando pene decisamente basse, mostrarono di essere poco convinti dalla ricostruzione della Procura che voleva l'omicidio volontario».


LA PISTA ALTERNATIVA

Vent'anni dopo, proprio in questi giorni, è arrivata anche una ricostruzione alternativa. Al posto di Marta Russo, in quella mattina, doveva morire una ragazza messinese di 26 anni, iscritta al terzo anno fuori corso di Giurisprudenza. Il delitto, quindi, sarebbe stato premeditato e ci sarebbe stata addirittura la mano della mafia. La tesi è di Vittorio Pezzuto, giornalista e scrittore, che ha pubblicato a sue spese (nessun editore lo ha preso in carico) un libro dal titolo provocatorio: «Di sicuro c'è solo che è morta». L'autore racconta una verità molto lontana da quella venuta fuori dal processo. La ragazza messinese, iscritta all'università a Roma, è la figlia di un imprenditore che denunciò per estorsione alcuni mafiosi che gli avevano tolto tutto, impossessandosi di due supermercati. Lo sparo, secondo questa teoria, sarebbe stato una vendetta trasversale nei confronti dell'uomo. La giovane siciliana parlò dei suoi sospetti ai magistrati romani in una deposizione del 1° luglio 1997. La ragazza, a quanto pare, era confondibile con Marta Russo: stessa carnagione chiara, stessa lunghezza e stesso colore dei capelli, altezza e corporatura simili. Ma i pubblici ministeri che seguivano l'inchiesta a piazzale Clodio non ritennero fondata la pista alternativa. La giovane e il padre, a quel punto, si rivolsero alla Procura di Messina. «I boss ci hanno rintracciato anche a Roma - disse l'universitaria - Per l'agguato potrebbero aver scelto il vialetto dove quasi ogni giorno facevo lo stesso tragitto di Marta». Il verbale fu inviato alla Procura di Roma ma venne archiviato.
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Il Messaggero