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Il sottotenente Bogdan, ventitré anni, è l'addetto stampa di questo battaglione del quale non è possibile rivelare il nome per questioni di sicurezza. I soldati si staccano la toppa di appartenenza dalla divisa prima di essere fotografati, nessuno rivela la propria identità. Ci troviamo poco fuori Chastya, una anonima cittadina grigia, tipica della zona depressa del Donbas, fatta di panorami industriali fatiscenti o abbandonati, città resa ancora più anonima e decadente da una fitta nebbia e dalla pioggia che cade incessantemente sin dalle prime ore della mattina. Chastya prima faceva parte di Lugansk, una delle due capitali delle cosiddette repubbliche separatiste filo-russe. Ora è divisa in due parti, una controllata dai separatisti, l'altra dai soldati di Kyiv. Un varco militarizzato permette il passaggio dei civili tra le due parti, ma pochi lo attraversano.
Per raggiungere le posizioni avanzate si deve percorrere circa un chilometro in un bosco, poi attraversare un ponte meccanizzato e dopo una seconda parte di percorso, tra scalini di legno e passaggi coperti, si arriva a un fiume. «Il nemico ha distrutto uno dei ponti e l'altro non è utilizzabile, è minato. Per spostarci dobbiamo attraversare il fiume con una piccola barca con il motore silenziato. Loro sanno dove siamo e noi sappiamo dove sono loro. Più o meno sono intorno a centottanta gradi». Il sottotenente indica le posizioni dei separatisti che si trovano a circa cinquecento metri, da un lato e dall'altro del fiume.
Ci sono dei fori nella rete di mimetizzazione disposta lungo uno dei bordi del ponte. «Ogni tanto provano a colpire la barca, ma da qui non passeranno», dice Bogdan. Oltre il fiume si arriva, attraverso una serie di tunnel, alle postazioni interrate di osservazione. «Le gallerie le abbiamo scavate con le nostre mani, era impossibile portare degli escavatori qui».
Altri ragazzi, giovani come lui, con gli elmetti coperti da retine mimetiche, appaiono uno dopo l'altro.
Aspettano, come tutti, questo nemico che incombe, minaccioso, oltre i confini in un'aria irreale, sospesa, come questi fiocchi che continuano a cadere coprendo ogni cosa: uomini e persone. Come soldati chiusi in una fortezza che attendono, scrutando continuamente l'orizzonte, l'apparire delle colonne nemiche. «Hanno usato i droni lo scorso ottobre per colpire le postazioni delle guardie di frontiera qui vicino». Il confine è a pochi chilometri. Il tempo sembra essere dalla parte degli ucraini: il terreno è impraticabile, la temperatura si mantiene generalmente sopra lo zero. Così, il terreno non compatta ed è difficile pensare a una veloce avanzata russa in un terreno paludoso. Tutto si rallenta, perde di slancio. Anche camminare nelle trincee risulta più faticoso, con gli scarponi che vengono risucchiati dal terreno, strappandosi quasi dai piedi. «L'ultima volta che ci hanno sparato è la settimana scorsa, con un lanciagranate. Uno dei nostri è stato ferito, colpito da una scheggia. A volte usano anche l'artiglieria pesante».
Quando il gruppo di uomini riattraversa il fiume, il motorista chiede scherzando se c'è un posto per lui come gondoliere a Venezia. Un altro soldato chiede di portare i saluti a sua madre, in Italia. «Ditele che sto bene, diteglielo se potete. Abita ad Ancona e si chiama Veronica».
Il Messaggero