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Quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha deciso di spostare l'ambasciata americana prima a Leopoli e poi in Polonia parlando di un attacco imminente della Russia, due giorni prima dell'inizio effettivo della guerra in Ucraina, Volodymyr Borovyk era nel suo Caf a Furio Camillo, zona sud-Est di Roma. E in quell'istante ha preso coscienza di un qualcosa che covava già dentro: andare a difendere il suo paese. La parte più difficile è stata spiegarlo a sua moglie e ai suoi tre figli di 6, 8 e 10 anni.
La sua storia, come ci racconta nei mille messaggi audio che ci invia tramite WhatsApp, è simile a quella di tanti suoi connazionali che hanno sentito il richiamo della propria patria ferita. «Ho scelto di arruolarmi soprattutto per i miei figli. Sono nati a Roma, studiano qui, ma sono pur sempre ucraini. Se un domani volessero trasferirsi in Ucraina, devono avere l'opportunità di farlo. Da liberi cittadini». Parlare con Volodymyr non è affatto facile perché quando suona l'allarme anti-aereo deve correre a staccare l'elettricità.
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MOLOTOV E ALLARMI
«Mi sono arruolato come soldato semplice. Il giorno dopo mi sono presentato di nuovo in commissariato, in attesa di una destinazione. Chi arriva ha tanta motivazione. Tant'è che qui, in Ucraina, ci sono anche i gruppi di difesa territoriale. Sono forti e organizzati». E sono proprio questi ultimi il baluardo più difficile da buttare giù per i russi. «Quando i nemici entrano nelle città, loro attaccano lanciando molotov dalle finestre. Sono imprevedibili». Al momento com'è la situazione? «I morti sono tanti e cambia tutto di giorno in giorno. Siamo in azione 14 ore al giorno, ma tutto cambia all'improvviso. Sono pronto anche ad andare al fronte» ci racconta con voce ferma. «Vogliamo impedire che scoppi la terza guerra mondiale. Dobbiamo salvare un Paese. Questa è casa nostra». Suona l'allarme. Ci saluta. La mattina dopo però ecco puntuale un altro messaggio: «Tutto bene». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero