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Mentre parla, Stefano Bedetti, titolare e consigliere, nonché quarta generazione, insieme al fratello Marcello, della storica casa romana Bedetti, nota per alta gioielleria e orologi, usa spesso l’espressione «giocare con le pietre». Manifesta così il rapporto famigliare che lo lega a quelle che sono, in tutti i sensi, gli strumenti base del suo mestiere.
Quanta esperienza ci vuole?
«Tanta, ma, soprattutto, non si finisce mai di imparare e di conoscerle. È anche questo il lato affascinante del mio lavoro. L’amore è nato grazie a mio padre, Massimo, che è stato il primo italiano in assoluto a studiare presso il Gemological Institute of America, la più prestigiosa istituzione mondiale del campo, e che, poi, ha fondato anche quello italiano».
Quali pietre ritiene più affascinanti?
«Nell’ordine: rubini, smeraldi e zaffiri. Amo quelle colorate e trovo che queste siano le più belle e le più rare».
Ha convinto qualche suo cliente a virare su qualcosa di colorato?
«Recentemente. Per un anello da promessa di matrimonio, la cliente mi ha visto giocare con pietre colorate e ha scelto un rubino sangue di piccione perché voleva qualcosa di non classico come un diamante.
La sua collezione preferita non è monocroma, quindi.
«Per me spicca quella con zaffiri: gli anelli hanno la pietra blu, rosa, gialla o arancione, il bracciale, che non a caso è detto rainbow, li ha multicolor. E non posso dimenticare gli anelli che montano diamanti fancy yellow, di qualità vivid, ovvero nella più intensa sfumatura di giallo».
Un bel successo per l’ azienda?
«Il grande e duraturo rapporto con De Beers, di cui siamo stati partner preferiti a Roma. Con loro abbiamo anche organizzato la mostra Diamanti. Arte storia scienza, nel 2002, alle Scuderie del Quirinale. L’evento si è concluso con una serata speciale per i nostri clienti selezionati: un tagliatore ha mostrato come avviene il taglio».
Come quarta generazione che responsabilità sente?
«Sento responsabilità, ma anche sfide per il futuro. Quella di crescere, di divulgare la nostra storia e di trasmettere i valori di un’azienda nata nel 1882 ».
Lo fate anche sui social?
«La nostra comunicazione è omnichannel e credo che sia necessario usare canali veloci e diretti per trasmettere contenuti densi di significato. Li usiamo per veicolare la nostra storia. Per esempio, stiamo digitalizzando i modelli di una designer che ha collaborato con noi dagli Anni Settanta al Duemila».
La vostra clientela è cambiata?
«Si è rinnovata. L’alta gioielleria, soprattutto dopo il Covid, interessa anche un pubblico più giovane, che ha capito che i gioielli mantengono un valore perenne».
Come unite tradizione e modernità?
«La prima è legata ai materiali, che devono essere adesso come allora di immutata qualità. E devono essere creazioni per tutte le donne, di ogni età e, che al di là del loro valore, possano essere indossate tutti i giorni».
Cosa dovrebbe dare di più un gioiello?
«Vendiamo sogni, perché non si tratta di qualcosa di necessario, ma della possibilità di donarsi o farsi regalare un’emozione, che darà gioia anche in futuro».
Da dove traete ispirazione?
«Da Roma soprattutto, la nostra città. Prendiamo spunto dalla sua architettura, dai suoi colori e dalla sua luce. C’è una profonda connessione con questa città». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero