Denis Mukwege, premio Nobel per la pace 2018 (assieme a Nadia Murad, attivista yazida vittima dell’Isis) è stato ricevuto stamattina, durante l'udienza...
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Denis Mukwege racconta che quando in Congo si sono registrati i primi casi di violenze, i medici erano impreparati a tanta devastazione umana. «Vedevamo donne, ragazze e anche bambine arrivare in ospedale con gli organi totalmente distrutti. I loro corpi non solo erano stati vittime di violenze carnali, ma anche di torture. Alcune donne erano state mutilate e altre erano state abusate con l’introduzione di oggetti taglienti nella vagina. È stato osservando certi casi che ho deciso di intervenire".
«Per fermare quanto sta avvenendo qui in Congo - ha spiegato il premio Nobel - occorrerebbe innanzitutto che i colpevoli venissero puniti. Poi ci vorrebbe una ferma volontà politica nazionale ed internazionale di porre fine al saccheggio dei minerali. Perché in questo modo cesserebbero i conflitti che stanno dilaniando da anni il nostro paese. È una battaglia necessaria, gli stupri non distruggono solo le donne e il loro corpo ma l’intera società. Dopo essere state violentate le vittime vengono considerate colpevoli dai mariti e vengono per questo allontanate e isolate. Ci sono alcune donne che contraggono l’hiv, che è una malattia che provoca una stigmatizzazione dell’ammalato, e altre che soffrono di perdite e incontinenza e quindi vengono derise e umiliate dalla comunità. È una tragedia che va fermata, occorre intervenire su moltissimi fronti, anche con un profondo lavoro di sensibilizzazione nei villaggi e nelle città, per far si che le comunità non considerino più queste donne colpevoli della tragedia che è loro toccata».
Mukwege è nato a Bukavu nel 1955, terzo di nove figli, ha studiato medicina in Burundi e servito inizialmente presso l'ospedale locale per poi trasferirsi in Francia e specializzarsi in ginecologia presso l'Università di Angers. Rientrato in patria ha aperto nel 1998 il Panzi Hospital a Bukavu. L'attività di Mukwege viene portata avanti tra mille difficoltà quotidiane in una regione storicamente instabile, mettendo a rischio anche la propria vita. A Panzi le donne ricevono assistenza medica, psicologica, giuridica ed economica. Migliaia di sopravvissute vengono poi sostenute da programmi terapeutici finanziati dall'Onu e da donatori privati per aiutarle a riconquistare l'autonomia. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero