Sembra una leggenda, un mito d'altri tempi raccontato per spaventare o affascinare i popoli di passaggio. Bastano poche frasi, o poche immagini per immergersi in un altro...
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L'INFERNO DEGLI INFERNI
«È il faro più esposto e di più difficile accesso della Bretagna, ossia del mondo. Lo chiamano l'inferno degli inferni», scrive Emmanuel Lepage, celebre fumettista francese, nel suo Ar-Men - L'inferno degli inferni (Tunué, 96 pp, 23,5x31cm, 27). Il libro, maestoso nei disegni, perfetto nei testi, è un tributo a questa costruzione impervia, e a tutto ciò che è arrivato prima e dopo: i guardiani che ne custodiscono la luce, gli uomini lì intrappolati per giorni e giorni quando le maree non permettono il cambio turno, gli incubi e i fantasmi che ognuno di loro si porta in quel «regno» di solitudine, in quella «miniera», in quel «moncone di roccia» diventato «mostro marino». Per raccontare la storia vera di Ar-Men, Lepage si affida alla quotidianità, inventata ma documentata, di Germain, uno dei guardiani che arriva lì dopo la seconda guerra mondiale. Un uomo che vive di routine e di ricordi, e che nel faro ne trova altrettanti: perché una tempesta fa scrostare il muro e Germain scopre delle iscrizioni nell'intonaco, fatte da un precedente guardiano. Il presente si mescola con il passato, l'epica con il reportage. È proprio la fase di costruzione del faro la parte più interessante del libro, perché sembra la Macondo di García Márquez, ma è la Bretagna della Commissione fari francese tra Napoleone III e la Terza repubblica.
14 ANNI DI LAVORO
Nel 1865 il primo ingegnere incaricato del nuovo faro parte pessimista: «Non si può pensare di costruire, le dimensioni sono decisamente insufficienti». Gli isolani esultano, ma poi, per testardaggine e orgoglio, si ricredono, a patto che siano proprio loro a lavorare al progetto. Il primo anno di lavori, 1873, però è un fallimento: solo 9 ore passate realmente sulla roccia. Le onde sono troppo violente, la superficie impossibile da lavorare, il cemento non attacca. Gli ingegneri mandati dal governo si arrendono, e si susseguono l'uno con l'altro. Serviranno 14 anni di lavori per terminare il progetto: il 30 agosto 1881 il faro si illumina ufficialmente per la prima volta. I guardiani vegliano la luce per più di cento anni, e alcuni di essi rimarranno bloccati tra le mura cilindriche per più di 100 giorni consecutivi. Nel 1990 gli ultimi vengono prelevati con l'elicottero: da lì in poi il faro diventa automatizzato e a controllo remoto. La rivoluzione tecnologica e poi l'oblio.
SIMBOLO TOTEMICO
Ar-men con Lepage non è il primo faro a diventare il centro della narrazione, né sarà l'ultima. Da Robert Louis Stevenson, che prima di diventare scrittore era un ingegnere specializzato in fari tanto da seminarli nei suoi racconti, a Virgina Woolf, che nel 1927 con Gita al faro afferma il ruolo totemico, pieno di risvolti psicologici, di queste costruzioni. E poi tanti altri esempi, fino arrivare ai giorni nostri: un giallo di Camilla Lackberg (Il guardiano del faro, Marsilio), e il romantico La luce degli oceani di M.L. Stedman (Garzanti). Ar-Men supera il limite della parole e trasforma la storia in tavole bibliche: il paradosso del faro è che di giorno è solo una torre inutile in mezzo al mare e di notte solo un'illuminazione. Ar-Men è la più affascinante delle contraddizioni: paradiso e inferno, solitudine e umanità, sogno e fantasmi. Un punto di luce minuscolo per controllare l'immensità del mare.
Il Messaggero