Sangue infetto, confermata in appello la condanna per una trasfusione del 1975

Sangue infetto, confermata in appello la condanna per una trasfusione del 1975
LATINA - Il Ministero della Salute aveva continuato a sostenere che il diritto al risarcimento era prescritto, l'uso del sangue all'ospedale di Sezze era stato...

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LATINA - Il Ministero della Salute aveva continuato a sostenere che il diritto al risarcimento era prescritto, l'uso del sangue all'ospedale di Sezze era stato corretto e la donna aveva dato il consenso alle trasfusioni. Non è servito a ribaltare la sentenza con la quale - nel 2011 - era stato riconosciuto a una donna di Sezze che nel '75 aveva 31 anni il risarcimento di 360.000 euro per una causa iniziata tre anni prima.

 
Accogliendo la difese dell'avvocato Renato Mattarelli la Corte di Appello di Roma ha  confermato la decisione del primo grado poiché la donna di Sezze, come molti altri pazienti pontini, non avevano avuto conoscenza del contagio se non dopo decine di anni, visto che l'epatite C è una malattia che si manifesta, spesso senza sintomi, anche dopo 30 anni dal contagio.

Nella sentenza viene  ribadito che durante il ricovero  non vennero effettuati i dovuti controlli sulle sacche di sangue trasfuse alla donna e che se anche all'epoca non era stato reso obbligatorio il test di rilevamento dell'epatite C sulle donazioni   (poiché inventato solo nel 1989) i sanitari  avrebbero potuto evitare il contagio alla donna con strumenti indiretti (termotrattamento del sangue donato per inattivazione di eventuali virus, oppure esclusione delle sacche ricevute per presenza di enzimi rilevatori di epatiti).  
"La sentenza  - spiega Mattarelli - ha evidenziato che non poteva non essere noto alla comunità scientifica e medica, compresa quella dell'ospedale pontino, che a cavallo dell'epoca delle trasfusioni alla donna, vennero pubblicati fra 1965 e il 1983 cinquantadue articoli di studi che informavano i medici dei rischi infettivi epatici delle trasfusioni di sangue. Evidentemente, le conclusioni sono due: nel trasfondere la donna o i sanitari di Sezze hanno disatteso queste informazioni che avevano a disposizione o non le conoscevano".   Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero