LATINA - Il Ministero della Salute aveva continuato a sostenere che il diritto al risarcimento era prescritto, l'uso del sangue all'ospedale di Sezze era stato...
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Accogliendo la difese dell'avvocato Renato Mattarelli la Corte di Appello di Roma ha confermato la decisione del primo grado poiché la donna di Sezze, come molti altri pazienti pontini, non avevano avuto conoscenza del contagio se non dopo decine di anni, visto che l'epatite C è una malattia che si manifesta, spesso senza sintomi, anche dopo 30 anni dal contagio.
Nella sentenza viene ribadito che durante il ricovero non vennero effettuati i dovuti controlli sulle sacche di sangue trasfuse alla donna e che se anche all'epoca non era stato reso obbligatorio il test di rilevamento dell'epatite C sulle donazioni (poiché inventato solo nel 1989) i sanitari avrebbero potuto evitare il contagio alla donna con strumenti indiretti (termotrattamento del sangue donato per inattivazione di eventuali virus, oppure esclusione delle sacche ricevute per presenza di enzimi rilevatori di epatiti).
"La sentenza - spiega Mattarelli - ha evidenziato che non poteva non essere noto alla comunità scientifica e medica, compresa quella dell'ospedale pontino, che a cavallo dell'epoca delle trasfusioni alla donna, vennero pubblicati fra 1965 e il 1983 cinquantadue articoli di studi che informavano i medici dei rischi infettivi epatici delle trasfusioni di sangue. Evidentemente, le conclusioni sono due: nel trasfondere la donna o i sanitari di Sezze hanno disatteso queste informazioni che avevano a disposizione o non le conoscevano". Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero