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dalla nostra inviata
BARGI (BOLOGNA) Ora che i corpi delle vittime non ci sono più, restano i muri di una centrale bruciata e allagata, una turbina esplosa e un’inchiesta della Procura di Bologna per disastro colposo e omicidio colposo. Ai piani meno nove e meno otto, dove sono stati trovati i sette morti, sono stati messi i sigilli, domani cominceranno i sopralluoghi degli investigatori e la scatola nera con la memoria dell’impianto di Bargi è stata consegnata ai pubblici ministeri.
Dalla lettura incrociata tra i dati che verranno estrapolati da questa sim e i documenti acquisiti sui lavori ormai in fase conclusiva si partirà per stabilire le cause del disastro. «Nelle centrali c’è la massima attenzione, il personale è di grande livello. Non crediamo a un errore umano, forse c’è stata un’avaria», è opinione comune a Castiglione de’ Pepoli, borgo di 6.000 abitanti nell’Appennino bolognese dove vivono decine di dipendenti Enel Green Power. Due sono sopravvissuti: Emanuele Santi, che ieri è tornato al lavoro, e Alessio Fortuzzi, entrambi scappati dai piani alti della centrale. Mentre Leonardo Raffreddato, in ospedale a Cesena con ustioni al petto e alle braccia, sta lentamente migliorando.
LA VALVOLA
La ricostruzione dell’incidente, al momento un’ipotesi, è che la turbina sia andata fuori giri, abbia accelerato andando in pezzi e per effetto delle scintille avrebbero preso fuoco gli oli dei cuscinetti sotto l’alternatore, almeno due contenenti tremila litri di lubrificante ciascuno. Il motivo per cui la turbina abbia aumentato a sproposito la velocità è tutto da capire ed è avvenuto proprio nella fase di collaudo del secondo gruppo di generazione. Il cartello di descrizione dei lavori affisso al cancello della centrale riporta una «breve descrizione dell’opera: attività di revisione della valvola rotativa e adeguamento del sistema oleodinamico, sostituzione quadri elettrici».
SANGUE FREDDO
I sub si muovono a tentoni, con cautela, «per avanzare in un ambiente così ostile si impiegano anche dieci minuti per dieci metri». I sommozzatori scendono in coppia, comunicano tra loro e con l’unità in superficie. «Con le planimetrie in mano li guidavamo, confrontando la loro posizione con le immagini che ci restituiva la telecamera», ricorda Petrone. «Una volta individuata la vittima bisogna affrontare il percorso inverso, con una difficoltà in più: per essere portato fuori, il corpo viene vincolato al soccorritore». I sub indossano una muta scafandro ermetica, hanno una bombola di emergenza sulle spalle ma la centrale di comando è rappresentata dall’elmetto: da qui ricevono l’aria per respirare, è dotato di un sistema di illuminazione e un interfono. Tutto quello che vedono sott’acqua viene trasmesso su un monitor in superficie. La componente tecnica è sempre mantenuta sotto controllo, poi c’è la variabile delle emozioni. «L’impatto emotivo in queste missioni è sempre molto forte, non deve avere il sopravvento, ci si concentra. Siamo addestrati anche per questo. Ma quando vediamo che per qualcuno è troppo dura, interveniamo subito», afferma Petrone. «Se si prova paura? Certo, la paura c’è sempre ed è quella che consente di non fare errori».
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