Forse non muoiono dalla voglia di conoscere le motivazioni delle condanne ricevute. O forse sì: magari c'è chi le aspetta per proporre ricorso, per fare appello,...
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Posizioni diverse, prospettive differenti, a volte opposte, che sono accomunati però dalla stessa condizione: quella di stare in attesa, all'interno di una bolla sempre identica, una sorta di limbo rimasto inesorabilmente immobile, cristallizzato.
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Da tre anni e cinque mesi, per la precisione: è il tempo passato dal verdetto pronunciato a carico di un direttore di banca (e di alcuni presunti complici), condannato a nove anni di reclusione al termine di un'inchiesta per truffa, sostituzione di persona, costruzione di falsi profili creditizi.
Da allora - dal 15 aprile del 2016, giorno del verdetto - ad oggi, si attende ancora il deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado. E a nulla sono valsi i solleciti inoltrati ai vertici del Tribunale, ai coordinatori della sezione penale del Palazzo di giustizia, tutti finalizzati a sbloccare il caso, ad ottenere il deposito delle motivazioni.
A sollevare il caso è il penalista Luigi Pezzullo, che assiste la Unicredit spa, che si è costituita parte civile nel processo a carico di un gruppo di imputati che avrebbero fatto capo all'ex direttore di filiale V.S., a sua volta ritenuto responsabile di una serie di raggiri.
È la nona sezione penale del Tribunale di Napoli (collegio A), nell'udienza conclusiva del 15 aprile del 2016, a pronunciare la sentenza: è il giorno in cui il direttore viene condannato a nove anni di reclusione e a novemila euro di multa, nonché al risarcimento dei danni in favore delle parti civili (che per gli inquirenti è pari a un milione e trecentomila euro).
Da allora, nessuna novità, a dispetto anche delle istanze di sollecito indirizzate dal legale di parte civile, con tono garbato ma deciso: «Il sottoscritto - ha scritto in almeno tre occasioni l'avvocato Pezzullo - chiede nuovamente che la signoria vostra voglia invitare l'estensore della sentenza affinché depositi le motivazioni in ragione del tempo trascorso dalla pronunzia (circa tre anni e cinque mesi) e degli interessi civilistici sottesi alla vicenda oggetto del procedimento in questione».
Ma che storia è questa? E in che cosa consistono le accuse culminate in una sentenza rimasta - almeno per il momento - un atto incompiuto? Si tratta di un'inchiesta che ha sempre fatto i conti con i tempi, come emerge dal fatto che il rinvio a giudizio viene disposto nell'ormai lontano primo ottobre del 2009 dall'allora gip De Gregorio, che fissò la prima udienza il 18 gennaio del 2010. Sei anni di processo per arrivare a condanne di cui però non si conosce ancora il motivo, nel senso che non è dato ripercorrere il ragionamento fatto dai giudici al termine della camera di consiglio. Si parte da un'indagine a carico di una presunta associazione per delinquere organizzata per truffare la Banca di Roma, ricettando assegni e documenti di identità (spesso di ignari cittadini del nord Italia) che venivano utilizzati per l'apertura dei conti correnti bancari, con cui strappare mutui e finanziamenti per posizioni posticce, costruite a tavolino. Agli atti finiscono centinaia di assegni, tutti riconducibili a conti correnti serviti per dare vita a movimentazioni ritenute irregolari. Tutto chiaro, secondo i giudici, al netto però del tempo trascorso per offrire alle parti le motivazioni della sentenza di primo grado. E non è tutto. Tempi lunghi anche se la situazione si sbloccasse a stretto giro, dal momento che - con l'avviso di deposito alle parti - passano almeno 45 giorni per proporre istanza di appello, spostando al 2020 una eventuale apertura di un processo bis alla presunta gang guidata da un ex direttore di banca: quello condannato tre anni e mezzo fa, senza sapere bene ancora perché. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero