Coronavirus, tamponi obbligatori in azienda: ecco cosa prevede la legge

«Tamponi obbligatori per tutti in azienda? La risposta è, ad oggi, negativa, perlomeno in Italia». A commentare la possibilità di eseguire tamponi e test...

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«Tamponi obbligatori per tutti in azienda? La risposta è, ad oggi, negativa, perlomeno in Italia». A commentare la possibilità di eseguire tamponi e test sierologici obbligatori e a tappeto per i dipendenti è Nadia Martini di Rödl & Partner, colosso internazionale della consulenza legale presente in 50 paesi nel mondo tra cui l’Italia. «Nessuna delle due attività  - spiega l'esperta legale - è giustificata da disposizioni di legge o appositi protocolli con le parti sociali».


Al centro del dibattito i dati relativi alla pandemia Coronavirus che in Italia sono confortanti e stanno traghettando il Paese verso la cosiddetta ‘Fase 2’ che prevede una graduale riattivazione del sistema produttivo e industriale con il conseguente ritorno in azienda o nei siti produttivi per milioni di lavoratori. Da qui l’ipotesi, sia pure per motivi di salvaguardia, di eseguire da parte dell’azienda sui suoi dipendenti di tamponi o test sierologici a tappeto e obbligatori per verificarne l’eventuale pericolosità in termini di contagio. Una possibilità però "cassata" dagli esperti in materia legale.

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«In mancanza di una norma di legge, il trattamento dei dati sanitari raccolti mediante il tampone o il test sugli anticorpi – continua Nadia Martini di Rödl & Partner - sarebbe legittimo solo in forza di un consenso libero del singolo dipendente, cioè senza alcuna possibile imposizione da parte del datore di lavoro, consenso che, nel contesto del rapporto di lavoro, non potrebbe essere libero».
 

Peraltro, i trattamenti di dati particolari come quelli in esame contrasterebbero pure con il principio di necessità e liceità. «Ad oggi, infatti la  normativa – spiega l’esperta - ammette unicamente i trattamenti di dati “Covid-19” indicati dal Protocollo del 14 marzo, quali la misurazione della temperatura corporea all’accesso mediante strumenti che però non consentano la registrazione del dato e la richiesta di autocertificazioni in merito alla non provenienza dalle zone a rischio epidemiologico e all’assenza di contatti, negli ultimi 14 giorni, con soggetti risultati positivi al virus. Quindi, dal punto di vista della tutela della privacy,  è necessario che il datore di lavoro informi i propri dipendenti, identifichi individualmente ed istruisca il personale interno o il fornitore incaricato di misurare la temperatura corporea o sottoporre i moduli di autocertificazione, formalizzi l’attività in una adeguata procedura ed effettui una valutazione di rischio sul trattamento».


Pertanto, allo stato, le aziende attive o che riprenderanno l’attività nella ‘Fase 2’ non potranno imporre ai dipendenti di sottoporsi a tampone oppure al test sierologico. Lo potranno fare solo ove fosse emessa una nuova normativa in tal senso. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero