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Sono pochi i termini economici che sono entrati nel dibattito collettivo come la parola “spread”. Forse non tutti sanno esattamente cosa significa: e, per loro, è utile ricordare che si tratta della differenza tra il rendimento dei titoli di stato di un paese e quello del paese considerato meno rischioso di tutti (la Germania). Ma tantissimi hanno capito che il suo aumento non è mai una buona notizia.
Una semplice regola di finanza prevede che un maggiore rendimento è giustificato sulla base di una maggiore rischiosità dell’investimento: più nello specifico, i cittadini presteranno soldi ai governi solo in cambio di remunerazioni molto elevate. E quando si chiedono remunerazioni elevate su un prestito? Quando non ci si fida abbastanza di chi sta chiedendo il denaro. Per questo motivo lo spread è quindi considerato un ottimo indicatore della reputazione (fiscale) di un paese. Nel 2011, in particolare, il vocabolo era sulla bocca di tutti. E, per chi allora c’era, oggi basta leggere o sentire il termine per evocare ricordi poco piacevoli: manovre correttive, riforme previdenziali, aumento della pressione fiscale, tagli drammatici e generalizzati alla spesa pubblica.
Nell’immutabile tradizione politica nazionale di farsi del male da soli, dove in Italia siamo imbattibili, l’argomento dello spread è utilizzato dai partiti politici all’opposizione per screditare il lavoro della maggioranza di turno: quando lo spread sale, è tutta colpa del governo in carica.
Considerando poi che le coperture per gli sgravi contributivi, nonché quelle per la riforma fiscale, sono assicurate solo per l’anno corrente, è chiaro che la caccia alle risorse per le prossime leggi di bilancio è ancora tutta in salita. Al di là quindi della reputazione del paese nei confronti degli investitori, ora maggiormente adeguata al merito della nostra nazione, è lo spread politico quello su cui il governo dovrà lavorare nel resto della legislatura. In altri termini, bisognerà ridurre la distanza che esiste tra il considerarsi semplicemente parte di una società e il sentirsi protagonisti delle sorti di un paese. E come potrà avvenire tutto ciò? Innanzitutto, provando a riappassionare alla politica il 50% degli elettori che non votano più; e poi, sempre più ambiziosamente, stimolando un ottimismo spesso diffuso ma anche latente nella nazione; rinvigorendo l’imprenditorialità nazionale, oppressa da fisco e burocrazia; e sviluppando, infine, la speranza nel futuro che manca ai più giovani, a volte impauriti e disorientati di fronte alla difficoltà di crescere in un paese dal futuro economico e demografico ancora incerto.
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