Da una parte il ceto alto, dall'altra il ceto basso. Qui i figli della buona borghesia, lì gli alunni provenienti dagli strati popolari. Con il minimo della mescolanza...
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L'effetto boomerang che ha provocato c'era da aspettarselo eccome. E mettere per iscritto, rivendicandola, la distinzione sociale tra gli alunni ha una sua schiettezza, quasi una brutalità, che può offendere.
Eppure, in tutta sincerità, chi non ha mai pensato iscrivendo i figli a scuola a che tipo di scuola li iscrive, non solo dal punto di vista didattico ma anche da quello ambientale? Chi non pensa al contesto - quanti parlano italiano correttamente, come sono composte le classi, quanto l'omogeneità di quella composizione aiuta o se magari invece penalizza, come garantire alla prole l'habitat più adatto a farli crescere a contatto con altri mondi ma non isolati in altri mondi - quando sceglie il percorso educativo per i propri ragazzi? Sarà pure politicamente scorretto il testo messo in rete dalla preside, ma dice che il re è nudo. Fa emergere il subconscio - che tanto sub non è, perché i genitori non fanno che chiedersi a vicenda: «Tu tuo figlio dove lo manderai alle medie? Ma la scuola che hai scelto che ambiente ha?» - di tante famiglie che sanno benissimo, fuori da ogni ipocrisia, che l'eccellenza scolastica non è slegata purtroppo dal contesto sociale in cui si esercita.
Sono sempre esistite e sempre esisteranno classi e sezioni nelle quali si trovano gli insegnati migliori e che spesso raccolgono in maggioranza gli alunni provenienti da realtà più fortunate di altre. Questo non significa che i simili devono stare con i simili. Anzi, la scuola oltre a garantire parità d'insegnamento e uguali opportunità per tutti dovrebbe avere una spiccata vocazione interclassista. Ciò non toglie però che il politicamente scorretto della preside romana - che magari poteva limitarsi a dire quello che pensa alla sua segreteria senza pubblicizzarlo senza filtri - tende a coincidere in fondo con quello che molti di noi sanno e che non giudicano affatto sconveniente: che le scuole danno un'indicazione sul tessuto socio-economico-culturale di riferimento.
Sta poi alle famiglie scegliere il più adatto per ognuna di essa. Si tratta di un approccio realistico, che nulla ha a che vedere con intenti discriminatori. Che poi un ragazzo di «ceto basso», per usare le brutte parole della preside, possa essere più bravo di uno di «ceto alto» - e spesso capita - non inficia il fatto che si debba ragionare su come assortire nell'interesse di tutti la scolaresca. Se è sbagliato allestire le classi-ghetto, è importante invece (e una delle casistiche proposte dalla preside è azzeccata: i figli dei ricchi con chi ha genitori «colf, badanti, autisti e simili») definire un mix di accurato e equilibrato per evitare l'effetto spaesamento in qualche studente. La crudezza nel discorso della preside c'è, ma è inutile seppellirla sotto una coltre di falsa indignazione. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero