Pensioni, quando la flessibilità diventa un valore

Pensioni, quando la flessibilità diventa un valore
L'articolo del professor Romano Prodi pubblicato dal vostro giornale domenica scorsa a proposito dell'età dipensionamento contiene considerazioni ampiamente...

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L'articolo del professor Romano Prodi pubblicato dal vostro giornale domenica scorsa a proposito dell'età dipensionamento contiene considerazioni ampiamente condivisibili e rappresenta un approccio innovativo al tema, che a fatica da tempo cerchiamo di far emergere. Il punto evidenziato dal professore è la differenza delle condizioni individuali rispetto alla delicata fase di passaggio dal lavoro alla pensione. E, suggerisce il professore, «adottando regole rigide non si riuscirà mai a mettere a frutto le energie vitali che l'uomo può esprimere» mentre sarebbe opportuno favorire una flessibilità, cioè offrire alle persone la possibilità di scegliere il momento del pensionamento sulla base delle diverse esigenze o scelte di vita, dettata da ragioni personali, famigliari, di salute o lavorative.


Del resto la flessibilità in uscita, da 57 a 65 anni, con almeno 5 anni di contributi, era già contenuta nella Riforma Dini del 1995, per coloro che sarebbero rientrati per intero nel sistema di calcolo contributivo.

Quell'impianto fu smantellato dalle controriforme successive, che hanno riproposto un sistema rigido di accesso alla pensione, che attualmente prevede 67 anni di età per la pensione di vecchiaia e 42 anno e 10 mesi di contributi per quella anticipata (un anno in meno per le donne), salvo la parentesi del sistema a Quote introdotto nel 2007 dall'allora Ministro del lavoro Cesare Damiano, sistema in parte temporaneamente recuperato, fino al 2021, con Quota 100.

Anche la cosiddetta Riforma Fornero, dal 2012, in realtà ripristina una flessibilità in uscita dai 63 anni con 20 anni di contributi (diventati 64 anni per effetto dell'innalzamento della speranza di vita) per chi è integralmente nel sistema di calcolo contributivo, ma questa opportunità irragionevolmente è riservata solo a chi matura una pensione superiore a 2,8 volte l'importo dell'assegno sociale, traguardo precluso ai più.

La forza, l'attualità e la sostenibilità della flessibilità in uscita, come sarebbe ragionevole dai 62 anni di età o con 41 anni di contributi, sta nel fatto che proprio in questi anni sta cambiando radicalmente lo scenario previdenziale del Paese, cosa di cui si stenta ancora a rendersene conto. Ormai sono in via di esaurimento le coorti di pensionandi con un pacchetto previdenziale prevalentemente soggetto al calcolo retributivo e le nuove generazioni di pensionati da ora in avanti avranno un calcolo prevalentemente o interamente contributivo, dal 65% a crescere. Questa novità è determinante per considerare sostenibile economicamente la proposta della flessibilità in uscita perché in un sistema tendenzialmente a base contributiva le variabili età minima di pensionamento e anni di contribuzione diventano irrilevanti mentre saranno decisivi altri due fattori, il montante contributivo e il coefficiente di trasformazione. In sostanza l'età in cui si va in pensione diventa finanziariamente irrilevante mentre decisivi saranno i contributi che sono stati accantonati nel corso della vita e l'età in cui si va in pensione.

Conosco due possibili obiezioni. Tante persone hanno ancora nel loro paniere previdenziale una componente retributiva rispetto alla quale l'età di pensionamento non è indifferente in termini di costi. La seconda è che un'uscita anticipata rispetto ai 67 anni comporta comunque una anticipazione di cassa. Sono obiezioni reali ma a conti fatti l'impatto economico sarebbe compatibile se considerassimo i benefici collettivi legati ad un turn over generazionale o alla opportunità che si offrirebbe alle persone di conciliare diversamente i tempi di vita, di lavoro, di cura, nel loro percorso esistenziale.


* Segretario Cgil nazionale con delega alle politiche previdenziali Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero