Aurora è una giovane laureata in Economia che, dopo aver provato a usare il suo titolo di studio nel mondo del lavoro, ha preferito rimetterlo nel cassetto e dedicarsi alla...
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Tuttavia, bisogna considerare altri elementi, che non sono sempre quantificabili. Il primo è il valore dell’avere un’alternativa. Un titolo di studio universitario, per quanto non utilizzato, è comunque segno della capacità di un individuo di imparare. In termini più tecnici, è un segnale della produttività di un individuo, indipendentemente dal fatto che studiare abbia o meno insegnato qualcosa. Dovesse andare male con le api (o il rifugio, il taxi, i fumetti, e così via), non ci si presenterebbe sul mercato del lavoro con un curriculum povero.
Inoltre, la laurea crea un valore di conoscenza e di relazioni che possono sempre tornare utili prima o poi nella vita. Per questo è anche sbagliato demonizzare alcune Facoltà solo perché, secondo i critici, “sfornerebbero disoccupati”. Le Università formano (non sfornano) persone e, semmai, il problema italiano è che non ne formano a sufficienza. Tra i 30-34enni italiani, solo il 27 per cento è in possesso di un titolo di una laurea: una quota nettamente inferiore alla media europea del 42 per cento. Certo, prima di iscriversi è bene conoscere e riconoscere i rischi. Se al momento, per esempio, i laureati in Lettere non sono richiestissimi, è comunque inutile iscriversi a Ingegneria se la matematica è una propria debolezza. L’esito più probabile è che gli studi saranno abbandonati dopo un paio d’anni, al più tardi, che il giovane si sentirà incapace e che l’esercito dei Neet (coloro che non studiano, non si formano e non lavorano) guadagnerà un soldato in più. Molto meglio invece perseverare in ciò che piace, con la consapevolezza che non necessariamente si lavorerà nel campo specifico oggetto di studio. Senza dimenticare, inoltre, che il mondo del lavoro cambia velocemente e in direzioni spesso non prevedibili. E un laureato con poco mercato oggi potrebbe invece averne moltissimo in futuro.
In bocca al lupo quindi a tutti i Matteo, i Giorgio e le Aurora d’Italia. E c’è da scommettere che, malgrado le loro scelte possano suggerire il contrario, si ritengano essi stessi fortunati di aver studiato. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero