La bella notizia che il Mose funziona non può né deve farci dimenticare di che lacrime grondi questa gigantesca gronda artificiale. Sono le lacrime delle decine di...
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Né può essere sottovalutata la gravità dei ritardi, determinati certo dall’irrompere dell’inchiesta, ma protrattisi oltre ogni giustificazione per i conflitti sulle competenze, la complessità delle procedure, l’inerzia dei governi, la carenza di fondi e, ultima ma non ultima, la paura degli organismi subentranti di esser coinvolti in denunce penali. Se in Italia ormai assistiamo al fenomeno della cosiddetta amministrazione difensiva, intesa come esasperata cautela nel decidere e nell’agire, per il Mose abbiamo assistito addirittura al paradosso di chiedere assensi preventivi alla Procura della Repubblica prima di firmare una carta o di posare un mattone. Un’anomalia che si sta diffondendo in tutto il Paese, e che prima o dopo il Parlamento dovrà decidersi a rimediare, in una globale riforma della giustizia che tuttavia è di là da venire.
Detto ciò noi preferiamo vedere, come si dice, il bicchiere mezzo pieno. E per due ragioni.
La prima è che il Mose rappresenta un’opera unica nell’ingegneria idraulica mondiale, che pone la tecnologia italiana all’avanguardia anche rispetto a Paesi più grandi, più ricchi e più esperti di noi. E’ un biglietto da visita straordinario, che i nostri imprenditori, ma soprattutto i nostri politici, dovrebbero esibire con orgoglio sia per esaltare le nostre capacità operative sia per acquisire commesse in un mondo dove le inondazioni richiederanno, anche per il cambiamento climatico, investimenti sempre maggiori. A suo tempo le opere in avanzamento del Mose furono visitate da delegazioni dei cinque continenti. Alcune espressero scetticismo sull’utilità, altre meraviglia per l’audacia, tutte curiosità sul funzionamento. Oggi che la risposta è positiva, immaginiamo che questo interesse si rinnoverà: l’importante è che venga, come s’è detto, adeguatamente supportato.
La seconda è che questa diga ripara Venezia, per la prima volta nella sua storia, dal fenomeno dell’acqua alta. Si discute e si discuterà a lungo se i costi sostenuti potessero essere dirottati verso opere più frazionate e mirate per salvaguardare la città più bella del mondo. Ma resta il fatto che da oggi le drammatiche immagini del suo strazio alluvionale saranno relegate nei ricordi e nelle cartoline illustrate. Si tratta ora di vedere se questo risultato sia una fine o un inizio. Potrebbe esser la fine dell’interesse dello Stato per tutelare questo suo preziosissimo bene. L’argomento di aver già speso tanti soldi, quando altri interventi sul territorio, sulle scuole e su altri beni culturali sono necessari ed urgenti, potrebbe costituire un solido alibi per abbandonare Venezia al suo destino. Ma potrebbe anche esser un inizio. Indipendentemente da nuovi finanziamenti, per forza ridotti, lo Stato può e deve far molto per fermare la decadenza demografica, economica e, in senso lato, strutturale, di Venezia. Il primo passo potrebbe esser quello di riconoscere che per una città di vecchi edifici costruiti su palafitte, occorrono leggi probabilmente incompatibili con tante altre norme vigenti.
Che, ad esempio, è assurdo ipotizzare l’acquisto e il restauro di un’abitazione da parte di due sposini, quando è probabile che alla prima picconata emergerà un modesto affresco ottocentesco e le Belle Arti bloccheranno tutto alle calende greche. Ecco, l’auspicio è questo: che dopo esser riusciti a domare le maree, si riesca ad arginare la proliferazione delle leggi e le miopie della burocrazia. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero