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Nella lunga lista della spesa e, si spera, dei progetti strategici che il governo si appresta a stilare, alcune categorie riceveranno sicuramente un’attenzione particolare. Avendone del resto tutte le ragioni. Per esempio, i lavoratori anziani e a rischio che devono essere accompagnati alla pensione; i disoccupati o gli imprenditori che hanno visto il proprio reddito ridursi considerevolmente; o ancora, le lavoratrici che a causa dell’emergenza sanitaria hanno dovuto abbandonare la propria occupazione.
Le parole pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, da questo punto di vista, sono state molto esplicite: le risorse del Recovery Fund dovranno essere utilizzate anche per proteggere e stimolare l’occupazione femminile. C’è però una categoria che soffre, alla pari e forse anche più delle altre, ma che diversamente da queste non ha rappresentanza, non è soggetta a interventi specifici e, quando lo è, ottiene solo misure per lo più simboliche. Mi riferisco naturalmente ai giovani. Non che questi siano stati particolarmente penalizzati dall’emergenza economica e sanitaria; piuttosto, è vero il contrario: i giovani sono sempre stati penalizzati.
A seguito dell’ultima grande recessione (2009-2013), per esempio, il tasso di disoccupazione nel Paese aveva raggiunto un livello del 13%, ma la componente giovanile (15-24 anni) raggiungeva valori superiori al 40%.
E sono diverse le dimensioni che raccontano di questo fallimento: la qualità del sistema educativo, innanzitutto; ma anche la capacità del Paese di attrarre talenti (e di trattenerli, quando questi vedono nell’emigrazione l’unica possibilità di realizzazione); la mobilità sociale.
Proprio questi elementi, insieme ad altri, e cioè la libertà economica, le pari opportunità, la certezza delle regole e il livello di corruzione sono stati utilizzati per misurare la meritocrazia del nostro Paese.
Il messaggio che emerge dai dati è quindi che l’Italia è un Paese non solo fermo ma che tende a frenare la sua componente più dinamica. A maggior ragione, quindi, tra i progetti che dovranno essere finanziati con le risorse del Recovery Fund, ci dovrà essere il rilancio del Paese stesso. A partire dal suo apparato burocratico che, come scrivevo la settimana scorsa, rischia di bloccare anche le migliori intenzioni e i più ambiziosi progetti. Ancora oggi la cronaca offre esempi tristemente calzanti di questa situazione. I provvedimenti attuativi dei decreti emergenziali sono fermi al palo: ne sono bloccati ben due su tre e con essi gli aiuti promessi a imprese e famiglie. Non solo: l’Ocse documenta come l’Italia sia all’ultimo posto perla velocità degli adempimenti fiscali.
Insomma, chi vuole investire e creare occupazione (e base imponibile), deve mettere in conto costi di tempo e di denaro superiore a quelli incontrati all’estero. E c’è infine un altro aspetto che bisognerebbe considerare. La maggior parte dei soldi che l’Italia riceverà dall’Europa sarà costituita da prestiti, vale a dire risorse che dovranno essere restituite nei prossimi anni, proprio da quei giovani che sempre meno restano nel nostro Paese e che sempre meno sono valorizzati quando decidono, nonostante tutto, di farlo. Una generazione per cui già oggi meno si spende rispetto all’Europa in istruzione; e che più di altre dovrà sopportare a livello contributivo il peso di un sistema pensionistico così squilibrato, ricevendo invece dallo stesso molto meno di quanto hanno potuto beneficiare la generazione corrente e le precedenti.
Potendo quindi scegliere, perché anche la beffa di far pagare ai giovani un prezzo ancora più salato? I prestiti che alimentano i fondi dell’Unione Europea avranno tassi pressoché nulli, compresi i fondi del Mes su cui ancora il governo non ha trovato una posizione chiara. Le stesse risorse, finanziate invece con titoli dello Stato italiano, costerebbero decine di miliardi in più, a causa del rischio più elevato per gli investitori. Non sarà quindi solo la progettualità del legislatore ma anche la sua saggezza economica che darà conto della volontà o meno di valorizzare le generazioni più giovani. Dimenticarsene oggi significa compromettere gli sforzi che il Paese sarà a chiamato a fare nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Un fallimento che l’Italia non può permettersi.
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Il Messaggero