Coronavirus Roma, dalla vita di quartiere alla clausura in Centro

Coronavirus Roma, dalla vita di quartiere alla clausura in Centro
Fare una vita di quartiere. Era il mio sogno. Immaginavo la terza parte della mia vita e fantasticavo un letargo stanziale. Basta con i viaggi e le fughe in giro per il mondo, sia...

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Fare una vita di quartiere. Era il mio sogno. Immaginavo la terza parte della mia vita e fantasticavo un letargo stanziale. Basta con i viaggi e le fughe in giro per il mondo, sia per lavoro che per diletto, speravo di rintanarmi nel mio quartiere, con una esistenza semplice, con riti semplici, con amicizie semplici, vivendo in pace lì dove sono nato.


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Bene, quella vita di quartiere adesso è arrivata. Ma non assomiglia nemmeno lontanamente al sogno che cullavo. Questa, infatti, è una vita di quartiere imposta, che segue i ritmi ansiogeni dettati da quel minuscolo virus capace di sconvolgere il mondo intero, a tutte le latitudini. 

No, non l’avrei mai voluta “questa” vita di quartiere. Adesso sogno il mare dei Tropici, le praterie del West, le cime della Patagonia. Vorrei stare in sella a una moto che corre nella Tundra, o su una canoa che scende le rapide dell’Alaska, vorrei guardare il globo dal cesto di una mongolfiera, vorrei attraversare un deserto a dorso di cammello, vorrei toccare con le dita le foreste, il grano, vorrei scendere con una maschera sotto acqua a osservare i pesci. Vorrei fuggire, vorrei essere a contatto con la libertà del mondo. Qui mi sento in prigione.

Eppure, abito in uno dei posti più belli del mondo. Abito nel centro di Roma. Quel centro storico che fece battere il cuore a Stendhal, a Goethe, a Keats. Abito in quel Tridente dove la bellezza è la normalità, dove l’architettura è storia e dove la storia è il quotidiano. Forse lo avevo dimenticato. Ma adesso che attraverso a piedi questo mio quartiere deserto, capisco la fortuna enorme che ho avuto nascendo qui. Cammino da solo, ogni tanto, pochi minuti al giorno, rispettando il raggio consentito di quattrocento metri, e provo struggimento misto a incanto assoluto. 

Sono solo e triste. Sono solo e triste ma in compagnia del Tempo. Due emozioni opposte, di malinconia e di gioia. Malinconia nel vedere i barboni del mio quartiere finalmente padroni dello spazio urbano. Eppure sono attoniti, spaventati anche loro. Gioie nel riconoscere a distanza Federica, titolare dell’edicola in Piazza Borghese. Malinconia nell’osservare anziani in fila davanti alla farmacia di piazza in Lucina. Gioia nel vedere la porta della Basilica aperta. Entro. Sono solo. Prego. Con fede assoluta. Mi sembra che qualcuno dall’alto mi ascolti. Poi attraverso Piazza di Spagna immacolata come la Madonna, a pochi metri in cima alla colonna. Il supermercato biologico in via dei Prefetti. La lunga coda che si forma all’entrata, tutti o quasi con la mascherina d’ordinanza, è quasi una manna, spezza la mattinata. Passa un’auto dei Carabinieri. Ci salutiamo. Con affetto e rispetto. Un addetto alla pulizia urbana mi riconosce e ridendo cita un mio dialogo buffo di “Febbre da Cavallo”. Mi dice grazie. Sempre più commosso, io. La vita di prima, le cose di prima, “contano”. 

Mi arriva un messaggio di Carlo Verdone. Come è affettuoso. Un vero amico. Il mio ristorante preferito “Settimio all’Arancio”, chiuso. Dentro, attraverso i vetri, rivedo serate allegre, gente, amici, belle ragazze. Chiuso, ma aperto nella mia memoria. Poco più avanti il piccolo mercato di Monte d’Oro. Si entra a turno, anche se all’aperto. La verdura esposta sembra un dono di Dio. Perché Dio c’è. Non so come e dove, c’è sicuramente nel cuore degli abitanti di questo quartiere. E degli altri. Dio c’è perché tutti adesso coltivano la speranza.

A casa scrivo. Leggo poco, scrivo. Suono il pianoforte. La musica serve a invocare la parte più bella della vita. Quella che non ha bisogno di parole ma solo di sensibilità. Ho un terrazzino. Niente vista. Anzi, vista su un cortile. E così scruto, da casa mia, le case degli altri. Lo faccio da talmente tanti giorni che adesso vorrei essere James Stewart di “La finestra sul cortile”, capolavoro di Hitchcock. Vorrei che accadesse qualcosa per rompere la monotonia di questo cortile. Anche un giallo con cadavere da decifrare andrebbe bene. Invece, niente. È un cortile romano, con profumi di cibo romano, come tanti altri. Ma quando esce il sole diventa un cortile meraviglioso.


Ogni tanto ripenso a piazza Mignanelli, a pochi metri da qua, dove sono nato. Ripenso a mia madre che mi portava per mano in una Roma senza macchine. Pareva vuota. Come oggi. Prima rimpiangevo quel vuoto. Adesso ho voglia di gente , di motorini, di turisti, Insomma di un po’ di casino. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero