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Si è concluso da pochi giorni il World economic forum di Davos. Edizione forse un po’ sottotono e che ha conquistato poche pagine sui giornali. Con due notabili eccezioni. La prima è stata l’intervento di Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea (Bce). È infatti naturale che istituzioni, investitori e cittadini europei attendano con trepidazione ogni sua parola e indicazione, sospesi come sono (e siamo) tra la paura di dover affrontare prezzi esorbitanti o, al contrario, tassi d’interesse elevati o ancora, nella peggiore delle ipotesi, entrambi. L’altra eccezione che ha catturato l’interesse dell’opinione pubblica ha riguardato invece fatti che si sono svolti all’esterno dei palazzi della riunione.
I protagonisti sono stati Greta Thunberg, la giovane attivista svedese per il clima, e “Fridays for future”, il movimento a lei ispirato composto per lo più da giovani e studenti. Si è quindi tornati a parlare di cambiamenti climatici, di riscaldamento globale, di biodiversità e di migrazioni. Di equilibri geopolitici mondiali, in sintesi, che coinvolgeranno le attuali giovani generazioni e quelle di domani in un futuro nemmeno troppo lontano.
Qual è l’approccio degli adulti o delle istituzioni? E perché fa arrabbiare questi attivisti? La ragione più immediata, che caratterizza gran parte dei cori infreddoliti dei ragazzi e dei motti sui loro piccoli ma colorati cartelloni, è che l’attuale classe dirigente, politici e industriali, è la principale colpevole della crisi climatica ed è quindi inutile fidarsi della loro volontà di risolvere il problema.
Eppure, a noi che a questa colpevole generazione apparteniamo, non sembra davvero che così poco sia stato fatto, soprattutto nell’Unione Europea e soprattutto negli ultimi anni. Quello che ci manca è però la reale consapevolezza del problema e della sua gravità.
Meno clamorosa, ma comunque indicativa di un atteggiamento poco equo, è l’Unione Europea. Qualcuno strabuzzerà gli occhi: proprio l’Ue, con le sue politiche per il clima, i protocolli firmati, il Green new deal, e così via? Già, proprio l’Unione Europea. Che nel suo impeto ambientalista, forse guidato da senso di colpa o forse guidato da megalomania, sembra voler imporre a tutti la sostituzione di automobili ancora perfettamente funzionanti con altre dalla dubbia resa, ma molto costose; oppure, la ristrutturazione in chiave di risparmio energetico di tutti gli immobili sul territorio continentale.
Come se chiunque avesse 50.000 euro per acquistare un’automobile elettrica o molti di più per cambiare la classe energetica della propria abitazione. Come se questo non avesse effetti devastanti, come il superbonus ci sta insegnando, sulla disponibilità delle materie prime e sul livello dei prezzi. Come se questo non mettesse in ginocchio le generazioni che ancora devono costruirsi un futuro, appunto, costringendoli a ripagare debiti per tutta la vita.
A volte viene da pensare che alcune chiacchiere al bar non siano poi così sbagliate: che, cioè, la percezione della realtà di chi fa politica ad alti livelli sia pari a quella di chi vive su un altro pianeta, dove pagare le bollette a fine mese non è mai motivo di preoccupazione o dove l’accesso alle scuole migliori, dalla propria città all’Ivy League, non incide sul vincolo di bilancio familiare. Dove, e qui si viene al punto, cambiare automobile a ogni nuova tecnologia disponibile o acquistare una casa di classe energetica elevata ha lo tesso valore del cambiare uno spazzolino da denti ogni tre mesi.
Perché l’impressione che hanno i giovani attivisti è probabilmente questa: che, benché le cause del cambiamento climatico risiedano nel presente e soprattutto nel passato, tanto gli effetti quanto i costi per affrontare il problema ricadano invece esclusivamente sulle generazioni più giovani.
Sia chiaro: il passaggio a uno stile di vita e di consumo sostenibile è sacrosanto. Nel merito, non sono nemmeno delle cattive proposte quelle dell’Unione Europea, anzi. Ma è sorprendente che nessuno abbia pensato alle conseguenze redistributive intergenerazionali di queste politiche.
Questa fretta è, ancora una volta, conseguenza di un immobilismo passato. Che però, hanno ragione i ragazzi, non fa che screditare l’attuale classe dirigente, evidentemente impreparata, che si sta occupando del problema. Così come scredita invece la causa ambientalista, è il caso di ammetterlo, chi si mette a imbrattare quadri e monumenti, forse più in cerca di visibilità personale sui social che in cerca di soluzioni concrete per l’ambiente.
Tra questi estremi, resta, per ora irrisolto, l’impegno più gravoso: che giovani e politici trovino la sintesi necessaria a garantire un futuro sostenibile al pianeta.
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Il Messaggero