Sono passati ormai quasi tre anni dal 23 giugno 2016, un giorno che rimarrà nei libri di storia e impresso nelle menti di milioni di cittadini europei. Il referendum sulla...
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Al contrario, interi territori, come Scozia e Galles, si sono espressi per il “Remain” e la differenza tra gli schieramenti era esigua: solo poco più di un milione di elettori su oltre 33 milioni di partecipanti al voto. Di fonte a uno scenario del genere, Cameron avrebbe potuto dimettersi immediatamente e cercare di indire nuove elezioni, in cui i partiti si sarebbero sfidati tra favorevoli all’uscita e partiti invece contrari. Certo, l’esito sarebbe stato incerto, ma almeno avrebbe ulteriormente responsabilizzato gli elettori e soprattutto conferito maggiore forza al vincitore. Al contrario, al voto ci si è arrivati dopo aver avviato la procedura di uscita e quindi dopo essersi infilati in un vicolo cieco o quasi. Peraltro, sia chiaro: se il Trattato dell’Unione europea prevede una clausola di uscita, significa che ogni Paese debba e possa sentirsi libero, nel corso della sua storia, di fare ciò che ritiene migliore per tutelare il benessere dei suoi cittadini. E certamente questo dibattito – se non addirittura questo passaggio – era necessario nella storia britannica, una nazione ed ex impero con forti legami e tradizioni di amicizia su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico ma anche orientato all’autonomia e alla grandezza.
Tuttavia, ciò si è di fatto tramutato in un salto nel vuoto: i vincitori del referendum se ne sono lavati le mani; Cameron, da sconfitto, ha dovuto gestire un esito in cui non credeva e ha preferito lasciare la gestione dei passi successivi alla collega di partito May. La quale, a sua volta, non ha saputo trovare sostegno né nel Parlamento né nel suo stesso partito al suo piano diplomatico con Bruxelles. L’Unione stessa non è esente da critiche: si è trovata a dover gestire un procedimento di certo eccezionale ma tutt’altro che impossibile o imprevedibile. Se da un lato è giusto che essa abbia voluto garantire ai propri cittadini il miglior trattamento possibile con l’uscita della Gran Bretagna, dall’altro avrebbe potuto rendere il processo più semplice e meno forzato. L’apertura degli ultimi giorni alla possibilità di un rinvio dell’uscita è stata una buona notizia, segno di aver capito che ulteriori chiusure avrebbero portato a un’uscita senza accordo (“no deal”) con conseguenze economiche rilevanti sia sulla Gran Bretagna sia su molti Paesi membri, tra cui l’Italia. E anche di aver intuito che con l’allungamento dei tempi aumenta la probabilità di una clamorosa retromarcia della Gran Bretagna.
Intanto, il voto di ieri sera del Parlamento inglese ha dato il via alla procedura di richiesta di questo rinvio.
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Il Messaggero