Il protagonista di un racconto di Jorge Luis Borges, lo scrittore immaginario Pierre Menard, comincia a riscrivere, parola per parola, il Don Chisciotte, per farlo coincidere...
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Il volume è la tesi di laurea sostenuta dallo stesso Calasso nel 1965, alla Sapienza: pubblicata dapprima in Messico otto anni fa, viene ora riproposta (con l'aggiunta di un saggio) da Adelphi, di cui l'autore è presidente. Calasso, all'epoca, non poteva certo immaginare di diventare editore di uno dei marchi italiani più raffinati; ma lo studio (chiaramente di genere universitario, con tanto di note a pié di pagina), lascia intuire l'evoluzione futura: la volontà di uscire dagli schemi, l'erudizione enciclopedica. Lo «scrittore curioso di tutto», destinato a diventare una «curiosità letteraria», è una figura che sfugge, come Calasso, a qualsiasi classificazione.
Chi era Browne? Un «mistico della scrittura», come suggerisce l'autore? O un abile creatore di scatole cinesi, riuscito a scrivere, come avrebbe voluto Walter Benjamin, «un libro di sole citazioni?». Di certo, questo multiforme studioso figlio dell'era delle Wunderkammer e delle meraviglie, cercava la verità nel vasto libro della Natura, che accanto alla Bibbia figurava tra le sue fonti favorite. Vero «bibliotecario del mondo», abituato a muoversi tra gli infiniti scaffali della Babele di Borges, ammiratore di Athanasius Kircher e studioso, a sua volta, di scrittura ideografica, Browne anticipa una sensibilità che confluirà nei racconti dello stesso Borges o nelle poesie di Coleridge, Swinburne, Baudelaire: «La Natura è un tempio dove pilastri viventi/ lasciano a volte percepire confuse parole / l'uomo attraversa una foresta di simboli / che l'osservano con i loro sguardi familiari».
Se è vero, per dirla con l'autore de L'Aleph, che ogni linguaggio è un alfabeto misterioso «il cui uso presuppone un passato che gl'interlocutori condividono», è nei geroglifici che va cercato il sapere segreto, iniziatico; ma fino all'epoca di Jean-François Champollion, l'arte di decodificarne il significato non era altro che «un'ingegnosa frode». Lo spettro dell'Egitto, scrive Calasso, ha accompagnato per secoli la nostra Storia; fino alle vette del Flauto magico, dei gorgheggi di Mozart.
La figura di Sir Thomas Browne si ricollega alla tradizione ermetica e magica dell'epoca Elisabettiana: a Norwich, lo studioso era «in rapporti di stretta familiarità ed amicizia con l'alchimista Arthur Dee», il figlio di quel John Dee che ispirò la Tempesta di Shakespeare e che, caduto in disgrazia, fu accusato di stregoneria.
Browne non fu da meno, rispetto al Bardo, nel numero di parole coniate nella lingua inglese: ben 784, come hallucination, electricity, computer. Non divenne di uso corrente un altro suo termine, deuteroscopy, vale a dire: «Dare una seconda occhiata». Ma in questo lo scrittore di Norwich fu un vero maestro: «Non pretese mai di essere il primo, se non nella maniera del dire». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero