Valerio Aprea al Teatro India: «Porto sul palco la felicità assoluta di essere bambini»

Parla l'attore, da stasera in scena con "Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta", scritto da Sandro Bonvissuto

Valerio Aprea al Teatro India: «Porto sul palco la felicità assoluta di essere bambini»
di Katia Ippaso
3 Minuti di Lettura
Giovedì 14 Dicembre 2023, 17:29 - Ultimo aggiornamento: 17:32

È una storia di iniziazione fatta di parole cesellate e di respiri scolpiti sul selciato della memoria. L'ha scritta Sandro Bonvissuto, la legge Valerio Aprea. Evento conclusivo del festival Flautissimo diretto da Stefano Cioffi, "Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta" ha realizzato il tutto esaurito ancor prima di essere narrato: stasera e domani (ore 21) e sabato (ore 19) al Teatro India. «Spero che i miei amici non me ne vogliano, la cosa è sfuggita al mio controllo» dichiara Valerio Aprea, attore di cinema, tv e teatro, impegnato con la lingua degli scrittori contemporanei, cominciando dal sodalizio, mai interrotto, con Mattia Torre (sceneggiatore e drammaturgo scomparso nel 2019).


Dove ci porta questo racconto che ascolteremo in prima nazionale con la sua voce?
«La scrittura di Bonvissuto ha una forte personalità, direi che è vivace e verace. È come se lui procedesse lungo l'autostrada della narrazione fermandosi a tutte le piazzole di sosta».


Cosa vediamo da queste piazzole di sosta?
«Cose entusiasmanti, che solo apparentemente possono sembrare digressioni. Si tratta di approfondimenti, finestre di pensiero, sottigliezze inesplorate».


Anche lei, come attore, tende a interrompere il viaggio per prendere aria?
«In un certo senso sì. Così come Sandro sminuzza tutto al microscopio, allo stesso modo io tendo a cesellare ogni parola dal punto di vista espressivo».


Cosa vi siete detti?
«Ci vedremo di persona solo all'India. Finora ci siamo visti solo su Zoom. Diciamo che la persona con cui ho parlato è degna della sua scrittura».


Bonvissuto manda in giro il curriculum più fulmineo della storia: "È nato a Roma dove vive. Ha due figli, lavora da sempre in trattoria e scrive libri per Einaudi". Gli somiglia?
«Non solo gli somiglia, ma questa sua asciuttezza mi ha fatto vergognare del mio curriculum troppo lungo».


Lei ricorda quando ha imparato ad andare in bicicletta?
«Non ero così piccolo come nel racconto.

Avrò avuto otto anni, e non cinque. Ho solo un'immagine: mio padre che mi insegna ad andare in bicicletta in una domenica in cui le macchine non circolavano. Eravamo sotto casa, a Montesacro. La bicicletta era stata comprata a Porta Portese».


Cosa provò?
«Una felicità assoluta. Da adulto, però la bicicletta non l'ho molto usata, anche se me la sono ricomprata di recente».


Qualche giorno fa i testi di Mattia Torre (da "Migliore a "4 5 6") hanno debuttato a New York (al Martin Segal Theatre Center), tradotti in lingua inglese da Anthony Shugaar. Contento di questa traversata?
«Le parole di Mattia continuano a vivere in tanti modi. Io non ho mai smesso di prendermene cura. Lui e il suo mondo fanno parte della mia ossatura di vita».


Le manca molto?
«Le rispondo con una espressione che Mattia usava spesso: manco a dirlo».


Scritti prima da Torre, oggi i suoi monologhi per Propaganda Live (La7) sono scritti da Makkox (Marco D'Ambrosi). Come definirebbe il suo mondo?
«La sua umanità è straripante di idee fantasmagoriche. Ha una creatività che mi fa quasi paura».


Come è la piazza di Propaganda live vista da dentro?
«È il programma che oggi veicola la più alta forma di intelligenza reperibile nella tv italiana. E una gran quantità di persone anche di idee politiche avverse gli riconosce un grande valore culturale».


Cosa sta preparando per cinema e tv?
«Per ora voglio concentrarmi sui recital dal vivo. Questo reading su testo di Bonvissuto, per esempio, è appena partito».


Teatro India, Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma

© RIPRODUZIONE RISERVATA