Peppe Barra: «La mia Napoli velata contro Gomorra. Sono un Don Chisciotte»

Peppe Barra
di Leonardo Jattarelli
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Venerdì 19 Gennaio 2018, 15:40 - Ultimo aggiornamento: 20 Gennaio, 14:07
“Io vuless addiventà n'albero 'e rose/ Pe te fa sentì l'addor e chist ammor/Io vuless addiventà nu poc e sol/Pe te fa sentí o'calore e chistu ben”. Napoli, Napoli velata, ricostruita e umiliata, rossa d’amore e di sangue. La Napoli d’o’ presepe di Eduardo, quella sentimental-arabeggiante di Gragnaniello e quella ritmica, assordante e popolare della Nuova Compagnia. Napoli dimenticata, “na carta spuorc” di Pino e Napoli eletta; oggi, la città multietnica più visitata, ammirata, desiderata, omaggiata. Napoli criminale, follia di botti e droga, Napoli senza un domani, Napoli Gomorra. Napoli-Ferrante, sorelle, famiglie e ricordi in letteratura, il Rione Luzzati del Quartiere Gianturco che diventa best-seller in giro per il mondo. Canto struggente di una sola anima e grido rabbioso di una folla che abita all’inferno, la città vesuviana del ventunesimo secolo è Bene e Male. E s’impone. Come non accadeva da tempo.

Quella di Peppe Barra, cantore raffinato e poetico, eccelso attore-creatore fin dai tempi della ricostruzione di una Napoli dilaniata dalla guerra, è stata fino a pochi giorni fa la città della tradizione, portata in scena al Politeama con la secolare “La cantata dei pastori”; dal 7 febbraio, Barra si affiderà al Cervantes rivisitato e corretto di Maurizio De Giovanni per “Don Chisciotte” insieme con Nando Paone al teatro Diana. Intanto si gode il successo del suo Pasquale, personaggio materno e confidente spassionato nel film di Ozpetek “Napoli velata”.

Quali emozioni le ha restituito la pellicola?
«Mi sono divertito molto. Pasquale è protettivo nei confronti di Adriana, la protagonista. Un po’ come è Napoli per chi la ama e ha avuto la fortuna di viverla davvero. Il filo conduttore dell’intero film di Ozpetek è il velare e disvelare continuamente, è arte sublime e colta».



L’opposto della Napoli matrigna e infernale di Gomorra
«E’ una serie che non mi piace e che non trovo edificante. Fa amare soltanto la violenza e dunque invia un messaggio distorto. Non è Gomorra la cultura di Napoli, descrive quel bubbone cancerogeno che vorremmo estirpare per sempre».

E che però esiste e non può essere taciuto. Proprio ieri anche l'ex parroco di Scampia, Don Aniello Manganiello, se l'è presa con Saviano: "Ci hai stancato" ha detto...
«La cosa che più mi sconvolge non è tanto la divulgazione nel mondo di questa immagine della città ma la sua epicità. La rappresentazione arriva ai giovani con una certa dose di eticità. Io lo riscontro tutti i giorni visto che abito in un quartiere popolare; i ragazzini scimmiottano i dialoghi di Ciro e Genny. Io la trovo una cosa mostruosa perché il business di Gomorra diventa involontariamente un’arma ancora più potente per la criminalità organizzata».



La città disegnata da Ozpetek rappresenta invece, da vicino, la Napoli che lei ha sempre vissuto fin da bambino.
«Ai miei tempi, il napoletano costruiva e non distruggeva. In questo momento non so capire bene se stia facendo l’una o l’altra cosa. Anche la grande pubblicità che si sta offrendo alla città, da una parte è doverosa e giusta se penso all’arte, ai musei, ai monumenti. Dall’altra crea un pericolo di sovraesposizione. Voglio dire, anche il benessere turistico deve essere governato nel modo giusto…».

In che senso?
«La strada di San Gregorio Armeno io ricordo com’era. Oggi è talmente affollata e impersonale da sembrare Venezia durante il Carnevale. Vorrei ritrovare una Napoli a misura d’uomo e come me, mi creda, tutti i napoletani».

Una volta ha detto che la tradizione popolare sta scomparendo. La pensa sempre così?
«Tutto cambia e io cerco di sopravvivere in questo mondo così diverso facendo le cose che ho sempre amato, cercando di divulgarle per far capire che abbiamo un immenso patrimonio da proteggere. Prenda il caso della Cantata dei pastori…».

Anche per la Cantata ci sarebbe qualcosa da fare?
«Si tratta di un pezzo della storia del teatro napoletano, un’opera pastorale che è sopravvissuta a quattro secoli. Eppure la Cantata non ha ancora una “casa”. Ogni anno ci si deve arrabattare per promuoverla, vincere le resistenze economiche. Sto lanciando l’appello di una “casa” per la Cantata da 40 anni ma nessuno l’ha preso a cuore».

Gli artisti a Napoli non fanno gruppo? Non c’è solidarietà?
«Il guaio è che Napoli è piena di maestri. Si tenta di collaborare ma alla fine ognuno va per cono suo».

Oggi potrebbe rinascere una Nuova Compagnia di Canto Popolare?
«Non credo. Gli anni Settanta erano socialmente e politicamente fertili, esistevano degli ideali che non trovo più. Noi facevamo una rivoluzione pacata attraverso l’arte. Ora ci si ciba di tv che è cacca. Cosa vuoi recuperare intellettualmente anche sui social? Si condivide soltanto spazzatura».

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«Il ragazzino di Scampia o dei Quartieri Spagnoli ha le stesse problematiche che affrontammo noi nel dopoguerra. La differenza è che Scampia è stata creata proprio per ghettizzare e c’è anche chi questa ghettizzazione l’ha trasformata in business. Come na tana ‘e zoccole dove è più facile aggredire, controllare».

Noi intanto aspettiamo il ritorno di Peppe Barra e Roberto De Simone…chissà che non nasca una nuova Gatta Cenerentola
«Il rapporto con Roberto è stato unico. L’ho amato e lo amo ancora ma continuo a bussare invano al suo cuore».
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