L’aveva fatto Peter Brook, che con la sua ultima opera realizzata sulla soglia dei 96 anni, “The Tempest Project”, aveva scelto di dirigere la grande vicenda shakespeariana verso la dimensione del gioco e della libertà. E oggi lo fa anche Bob Wilson. A 80 anni, il maestro americano riavvolge il nastro del tempo per arrivare a toccare le corde sensibili dell’infanzia con “Jungle Book”, lo spettacolo che ha appena debuttato in esclusiva nazionale al Teatro della Pergola di Firenze (fino al 6 febbraio).
Le differenze nello stile
Cosa resta alla fine di un così lungo cammino nel continente umano? Si devono essere chiesti i due maestri della scena. Dopo aver viaggiato dappertutto e aver studiato tutti quello che c’era da studiare, dopo aver guardato il mondo intero attraverso la lente d’ingrandimento del teatro. che cosa rimane? Pur nella differenza di stile rispetto a Brook, Wilson tradisce la stessa necessità di arrivare all’essenziale, per raccontare la ragione ultima per cui vale veramente la pena vivere.
Il suo “Jungle Book” è un’opera di acceso cromatismo, un’avventura tattile, che mette lo spettatore in una condizione gioiosa e straniata.
Le forme obbediscono alla tipica estetica wilsoniana che scolpisce nella luce, in maniera quasi chirurgica, ogni desiderio, aspirazione, dramma, conflitto, pulsione. E tanto più preciso è il “frame” che ospita il gesto, tanto più autentica diventa la rappresentazione della natura come infinito pentagramma di note visibili e invisibili che abbiamo disimparato a suonare, rischiando così la nostra stessa cancellazione. Ispirato a “Il libro della giungla” di Rudyard Kipling, lo spettacolo di Wilson si presenta come una fantasmagoria di invenzioni sonore, performative e cromatiche, che molto devono all’eccezionalità degli interpreti, attori e musicisti (felice la scelta delle CocoRosie, le sorelle Sierra e Bianca Casady, che hanno curato la parte musicale). Ma non è solo una questione di bravura.
Un mondo d'infanzia
La singolarità dell’opera (opera rock, opera pittorica, opera di luce, opera di canto, opera di recitazione e opera di danza) sta nella capacità di sgrammaticare non tanto le forme quanto le cattivi abitudini: di operatori, scrittori, registi e spettatori stessi. Per una sera, il Teatro della Pargola è diventato cassa armonica di una energia purissima in grado di disarticolare la passiva ricezione di un’opera. Per una sera, siamo stati travolti da orsi, lupi, tigri, scimmie, pantere, bambini cresciuti nella giungla. Per una sera, abbiamo vissuto il piacere della trasformazione e la minaccia della distruzione delle foreste. Per una sera, è stato a tutti chiaro che l’intelligenza è poca cosa senza l’arte della gioia.
«Il teatro non deve essere mai deprimente. Vi è sempre bisogno di un tocco di humour, anche per la morte di Lear. E per far questo bisogna mettersi sempre nelle condizioni di un bambino e vedere negli altri il bambino» ci ha detto lo stesso Bob Wilson prima dello spettacolo. «Non riusciremmo a sopportare la vicenda di Medea che uccide i figli se non vedessimo in lei la bambina che è stata. Come si possono umanizzare certi personaggi? Vedendo tutto come un mondo d’infanzia. Il mio Jungle Book è molto influenzato dalla filosofia Zen. Io non vedo mondi separati, ne vedo solo uno».