Sul podio il maestro Daniele Gatti, regia di Daniele Abbado, repliche fino al 18 dicembre
Ha scelto un tragitto bizzarro e originale per diventare cantante lirico.
«Ero nel coro polifonico dell’università, mentre studiavo Economia. Un giorno il maestro mi affrontò e mi disse: sfori sempre, prova al Conservatorio, qui non va. Fu mia moglie a convincermi e mi iscrissi al Conservatorio. Ma nel frattempo continuavo alla Sapienza. Per un lungo periodo, prima di entrare nel coro del Teatro dell’Opera, il mio primo contratto, facevo colloqui nelle banche e provini ai concorsi di canto. E poi il Met, Parigi, La Scala».
Rimpianti? Hai mai pensato che forse dietro una scrivania si sta più comodi?
«Magari ora lavoravo con Draghi. Scherzo. No, rimpianti, no. È stato tutto molto casuale. Anche se la passione per la musica è sempre esistita. Cantavo fin da ragazzino, un po’ di tutto. E infatti, più che a una mia ipotetica carriera economica, penso a quanti colleghi, bravi, hanno provato ad arrivare in un teatro e si sono ritrovati, invece, dietro una scrivania a fare altro».
Lei è stato Rigoletto decine di volte. Che uomo è?
«Un padre. Prima di tutto. Una figura che Verdi, forse anche per le sue sofferte vicissitudini familiari, ha esposto e proposto al pubblico molto spesso. Ma è anche una maschera: con la sua doppia faccia che piange e ride, Rigoletto per me è l’essenza del teatro».
Un papà difficile.
«Li unisce un amore non sano. Malato, come è malato lui. Sono legati, ma condannati all’impossibilità di comunicare. Lui non può svelare alla figlia la sua identità e Gilda non riesce a confessare al padre il suo amore. Ci sono dei “muri” anche musicali tra loro. E in scena sono resi in modo molto suggestivo. E moderno».
In scena non ha la classica gobba.
«La deformità in questo spettacolo è interiore. Rigoletto ha la gobba quando è a corte. Ma non quando è con se stesso. E quindi la malattia va simulata, parte dalla testa. Abbiamo fatto un lavoro molto introspettivo e sarà un Rigoletto veramente innovativo, proprio perché torna alle origini».
Innovazione con una scelta filologica?
«Il recupero filologico proposto da Gatti non è fine a se stesso, ma drammaturgico.
Per noi cantanti è stato come ricominciare da capo. Questa volta il direttore d’orchestra e regista hanno lavorato l’uno accanto all’altro fin dall’inizio, seguendo insieme i cantanti. Rigoletto, che è considerato un po’ il torero della lirica, come Figaro, qui a volte sussurra. Veloci e inusuali anche i tempi, ispirati più al metronomo di Verdi che a quello delle abitudini. Un percorso toccante, entusiasmante, faticoso, ma assolutamente contemporaneo».
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